BICENTENARIO
Recanati – 200 Anni “d’infinito”
di Tiziana Santoro
Il
natio borgo selvaggio che ha dato i natali a Giacomo Leopardi, il poeta de L’infinito,
celebra i 200 Anni del canto più famoso del poeta. Oltrepassate le mura, Recanati
è un accogliente cittadina che presenta intatto il fascino della tradizione, ma
sa proporsi al pubblico mettendo a disposizione tecnologia e professionalità.
Un circuito culturale interamente dedicato al poeta recanatese apre al pubblico
la biblioteca di conte Monaldo e la casa-museo. Dall’altra parte della
struttura, è possibile accedere all’edificio adibito alle scuderie e alla
servitù, che ha ospitato la giovane Teresa Fattorini, musa ispiratrice del
componimento poetico “A Silvia”. Il suddetto stabile permette ai visitatori di
osservare il poeta con lo sguardo curioso di Teresa. Culmine del circuito è il
progetto multimediale “io nel pensier mi fingo”, che coinvolge lo spettatore
attraverso una video-proiezione proiettandolo nei luoghi e nei pensieri di
Giacomo Leopardi.
Le
strade di Recanati, che conducono alla casa-museo, avvolgono i passanti con il
loro fascino e le caratteristiche torri. Le pareti delle case sono adornate con
quadri che riproducono il simbolo e insieme i versi de L’infinito;
costituiscono un sentiero privilegiato che si immette nella piazza “della torre
antica” e prosegue dritta al “parco dell’infinito”. Da lì, si prosegue sul
monte Tabor che svela la bellezza dei monti Sibillini e – nei giorni di bel
tempo – estende lo sguardo quasi fino alle coste Dalmate. Addentrandosi dentro
la casa dei Leopardi – oggi abitata dagli eredi del poeta – è possibile
ammirare i locali del primo piano, in cui si conserva intatta la biblioteca che
conte Monaldo ha voluto per i propri figli e soprattutto per “gli amici e
cittadini recanatesi”, come testimonia la lapide posta in bella vista. Insoddisfatto
della cultura canonica, impartita dai precettori ai figli, si dice che il conte
preferì provvedere personalmente alla loro istruzione. Pertanto, impreziosì le
scaffalature dei locali della biblioteca con oltre 20.000 volumi. Attività che
impegnò lui medesimo e i figli Giacomo, Carlo e Paolina ad un’attenta opera di
catalogazione che gli costò tempo e dissestò le finanze della famiglia,
faticosamente gestite dall’austera ed assennata moglie Adelaide Antici.
All’ingresso,
la guida, cordiale e preparata, mi mostra la cucina adiacente alla biblioteca e
poi chiusa per volontà dello stesso conte Monaldo. La prima sala ha carattere
enciclopedico e custodisce libri di vari argomenti – era la preferita di
Giacomo – quella da cui amava affacciarsi per ammirare l’antica torre e
osservare Teresa Fattorini. Lo studioso racconta che a causa della prematura
miopia, il poeta studiava portando con sé il piccolo tavolino in prossimità
della finestra per sfruttare la luce solare. Tra i preziosi volumi, si
distingue l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Nella seconda sala, si
trovano opere teologiche tra cui la Bibbia poliglotta scritta in sei volumi. L’esperto
riferisce che applicando il metodo comparato, in età giovanissima, Giacomo era
riuscito a tradurre dal greco all’ebraico con un’abilità tale da schernire e
correggere i suoi stessi precettori. Ad accorgersi delle doti del giovane
prodigioso era stato anche il padre, dopo aver sorpreso il figlio mentre
svolgeva i compiti di greco assegnati ai fratelli. Nella sala, colpisce la
presenza di libri banditi dalla Chiesa come pericolosi e per cui il conte
Monaldo aveva chiesto al Papa una dispensa di libero accesso per i figli. Addentrandoci nella sala dei manoscritti, possiamo prendere in visione, nelle
mirabili teche centrali, le opere autografe del poeta.Apprendo
dal mio interlocutore delle tensioni tra i Leopardi e l’amico Ranieri, il quale
piuttosto che far pervenire ai familiari i manoscritti di Giacomo, dichiarò che
erano stati smarriti, salvo poi celarli in un baule caduto in mano alla servitù
di palazzo. Sulle pareti spicca l’albero genealogico della famiglia, il
ritratto dell’amata sorella Paolina e di Giacomo a cura di Lolli e destinato
all’edizione bolognese dei Canti. Lo studioso mi racconta di una lettera
scritta da Giacomo proprio a Paolina, in cui si rammaricava del lavoro svolto
dal pittore che lo aveva reso più bello e, dunque, non riconoscibile.La
sala dell’Alcova, solo in seguito ad una più recente ristrutturazione, ha
svelato la presenza di dipinti che oggi sono stati resi visibili perché
suggeriscono l’atmosfera in cui ha vissuto il giovane Giacomo. Nella sala, sono
presenti opere letterarie e scientifiche inventariate e catalogate dal giovane
Giacomo e dal padre in persona. Benché poeta di straordinaria sensibilità,
Giacomo era un appassionato e attento conoscitore della scienza. Persino il suo
approccio era scientifico e meccanicistico e proprio questa visione lo aveva
sollecitato a ipotizzare “il crollo delle illusioni” e la consapevolezza che la
vita umana sarebbe sempre stata una vana e affannosa ricerca della felicità.
Conversando affabilmente durante il percorso, condividiamo riflessioni sull’approccio
di Leopardi all’esistenza e ne cogliamo l’essenza che lo attualizza ancora
oggi. Infatti, non si può non notare che l’intuizione poetica secondo cui la
modernità non avrebbe condotto l’uomo all’appagamento del suo sconfinato
desiderio di essere felice, era già una certezza consolidata nel cuore del
poeta; una certezza che lo avvicina a tutti noi uomini comuni. L’ultima sala a
ospitarci è lo studio di Monaldo: a ridosso della parete si trova la scrivania
da cui il conte osservava i tre figli giovinetti mentre studiavano sotto i suoi
occhi attenti.
Alle
pareti, i disegni a china dei figli e due stampe: programmi di saggi su
tematiche storiche, filosofiche e politiche offerti ad un pubblico di amici e
parenti. Un gioco e un diletto tra fratelli che avrebbe fatto impallidire
persino i dotti dell’epoca. Colpisce la libertà culturale e l’approccio all’educazione
di Monaldo, il quale non solo ha assecondato le intuizioni e gli interessi
culturali dei propri figli, ma ha concesso a Paolina gli stessi privilegi e
diritti di formazione dei figli maschi, contravvenendo alle restrizioni del
tempo. Nei locali dell’antico frantoio, si snoda il percorso museale adiacente
alla casa. Nelle teche, sono custoditi gli abiti da battesimo e la culla del
piccolo Giacomo, l’uniforme da gonfaloniere di Monaldo e i suppellettili di
Adelaide. Tra i giochi dei fratelli Leopardi, colpisce un piccolo altarino, sembra
che i tre giocassero a recitar la Santa Messa e che le vesti di officiarla
spettassero alla sorella Paolina. A seguire, il set da scrittura in ceramica
usato per la stesura de L’infinito e i manoscritti delle opere giovanili d’ispirazione
classica, una passione – ma anche un gioco da bambino – per cui Leopardi
vestiva i panni di Ettore e andava a battagliare nel giardino di casa contro i
fratelli. Il percorso cronologico si conclude con i frammenti degli abiti di
Giacomo e il legno della tomba sita nella Chiesa di San Vitale in Fuorigrotta.
Più
di ogni oggetto, cattura la mia attenzione il manoscritto autografo de L’infinito
con le correzioni apportate dal poeta medesimo. In particolare, mi cattura la
sostituzione della parola “immensità” con “infinità” che riappare nella stesura
definitiva e su cui evidentemente aveva indugiato il poeta. Una riflessione sul
termine che appare scontata a chi ha studiato le sue opere, ma che non doveva
apparire altrettanto scontata al poeta impegnato nella revisione dei versi. Prima
del congedo con la guida, uno scambio di battute era inevitabile e non ho
resistito a interrogarlo sulla spinosa questione “del pessimismo cosmico
leopardiano” indagato da Croce, De Sanctis, Binni. “Pessimismo per difetto o
per eccesso?”. Abbiamo buone speranze di vedere la questione superata anche
dalle “cattive antologie scolastiche”, ma occorrerà aspettare ancora qualche
anno.
Basti
pensare che Binni – interprete del “titanismo leopardiano” – ha risolto la
querelle critica incentrata sul “pessimismo” mettendo a fuoco la morale
costruttiva espressa nella Ginestra, che ci restituisce un Leopardi animato “da una nuova disposizione a vivere
intensamente e vigorosamente nel
presente (senza ricorsi alla memoria e al passato), a esercitare tutte le
proprie forze di eroica tensione
sentimentale, intellettuale e morale in una virile concentrazione della propria
esperienza e del suo valore”. Un
invito a vivere “qui e ora” in quell’ attimo “infinito” che è conquista di
felicità e inno alla vita: un canto che si ripete ancora oggi, 200 anni dopo.
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