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 giovedì 25 aprile 2019

BICENTENARIO

Recanati – 200 Anni “d’infinito”

di Tiziana Santoro


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Il natio borgo selvaggio che ha dato i natali a Giacomo Leopardi, il poeta de L’infinito, celebra i 200 Anni del canto più famoso del poeta. Oltrepassate le mura, Recanati è un accogliente cittadina che presenta intatto il fascino della tradizione, ma sa proporsi al pubblico mettendo a disposizione tecnologia e professionalità. Un circuito culturale interamente dedicato al poeta recanatese apre al pubblico la biblioteca di conte Monaldo e la casa-museo. Dall’altra parte della struttura, è possibile accedere all’edificio adibito alle scuderie e alla servitù, che ha ospitato la giovane Teresa Fattorini, musa ispiratrice del componimento poetico “A Silvia”. Il suddetto stabile permette ai visitatori di osservare il poeta con lo sguardo curioso di Teresa. Culmine del circuito è il progetto multimediale “io nel pensier mi fingo”, che coinvolge lo spettatore attraverso una video-proiezione proiettandolo nei luoghi e nei pensieri di Giacomo Leopardi.

Le strade di Recanati, che conducono alla casa-museo, avvolgono i passanti con il loro fascino e le caratteristiche torri. Le pareti delle case sono adornate con quadri che riproducono il simbolo e insieme i versi de L’infinito; costituiscono un sentiero privilegiato che si immette nella piazza “della torre antica” e prosegue dritta al “parco dell’infinito”. Da lì, si prosegue sul monte Tabor che svela la bellezza dei monti Sibillini e – nei giorni di bel tempo – estende lo sguardo quasi fino alle coste Dalmate. Addentrandosi dentro la casa dei Leopardi – oggi abitata dagli eredi del poeta – è possibile ammirare i locali del primo piano, in cui si conserva intatta la biblioteca che conte Monaldo ha voluto per i propri figli e soprattutto per “gli amici e cittadini recanatesi”, come testimonia la lapide posta in bella vista. Insoddisfatto della cultura canonica, impartita dai precettori ai figli, si dice che il conte preferì provvedere personalmente alla loro istruzione. Pertanto, impreziosì le scaffalature dei locali della biblioteca con oltre 20.000 volumi. Attività che impegnò lui medesimo e i figli Giacomo, Carlo e Paolina ad un’attenta opera di catalogazione che gli costò tempo e dissestò le finanze della famiglia, faticosamente gestite dall’austera ed assennata moglie Adelaide Antici.

All’ingresso, la guida, cordiale e preparata, mi mostra la cucina adiacente alla biblioteca e poi chiusa per volontà dello stesso conte Monaldo. La prima sala ha carattere enciclopedico e custodisce libri di vari argomenti – era la preferita di Giacomo – quella da cui amava affacciarsi per ammirare l’antica torre e osservare Teresa Fattorini. Lo studioso racconta che a causa della prematura miopia, il poeta studiava portando con sé il piccolo tavolino in prossimità della finestra per sfruttare la luce solare. Tra i preziosi volumi, si distingue l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Nella seconda sala, si trovano opere teologiche tra cui la Bibbia poliglotta scritta in sei volumi. L’esperto riferisce che applicando il metodo comparato, in età giovanissima, Giacomo era riuscito a tradurre dal greco all’ebraico con un’abilità tale da schernire e correggere i suoi stessi precettori. Ad accorgersi delle doti del giovane prodigioso era stato anche il padre, dopo aver sorpreso il figlio mentre svolgeva i compiti di greco assegnati ai fratelli. Nella sala, colpisce la presenza di libri banditi dalla Chiesa come pericolosi e per cui il conte Monaldo aveva chiesto al Papa una dispensa di libero accesso per i figli.

Addentrandoci nella sala dei manoscritti, possiamo prendere in visione, nelle mirabili teche centrali, le opere autografe del poeta.Apprendo dal mio interlocutore delle tensioni tra i Leopardi e l’amico Ranieri, il quale piuttosto che far pervenire ai familiari i manoscritti di Giacomo, dichiarò che erano stati smarriti, salvo poi celarli in un baule caduto in mano alla servitù di palazzo. Sulle pareti spicca l’albero genealogico della famiglia, il ritratto dell’amata sorella Paolina e di Giacomo a cura di Lolli e destinato all’edizione bolognese dei Canti. Lo studioso mi racconta di una lettera scritta da Giacomo proprio a Paolina, in cui si rammaricava del lavoro svolto dal pittore che lo aveva reso più bello e, dunque, non riconoscibile.La sala dell’Alcova, solo in seguito ad una più recente ristrutturazione, ha svelato la presenza di dipinti che oggi sono stati resi visibili perché suggeriscono l’atmosfera in cui ha vissuto il giovane Giacomo. Nella sala, sono presenti opere letterarie e scientifiche inventariate e catalogate dal giovane Giacomo e dal padre in persona.

Benché poeta di straordinaria sensibilità, Giacomo era un appassionato e attento conoscitore della scienza. Persino il suo approccio era scientifico e meccanicistico e proprio questa visione lo aveva sollecitato a ipotizzare “il crollo delle illusioni” e la consapevolezza che la vita umana sarebbe sempre stata una vana e affannosa ricerca della felicità. Conversando affabilmente durante il percorso, condividiamo riflessioni sull’approccio di Leopardi all’esistenza e ne cogliamo l’essenza che lo attualizza ancora oggi. Infatti, non si può non notare che l’intuizione poetica secondo cui la modernità non avrebbe condotto l’uomo all’appagamento del suo sconfinato desiderio di essere felice, era già una certezza consolidata nel cuore del poeta; una certezza che lo avvicina a tutti noi uomini comuni. L’ultima sala a ospitarci è lo studio di Monaldo: a ridosso della parete si trova la scrivania da cui il conte osservava i tre figli giovinetti mentre studiavano sotto i suoi occhi attenti.

Alle pareti, i disegni a china dei figli e due stampe: programmi di saggi su tematiche storiche, filosofiche e politiche offerti ad un pubblico di amici e parenti. Un gioco e un diletto tra fratelli che avrebbe fatto impallidire persino i dotti dell’epoca. Colpisce la libertà culturale e l’approccio all’educazione di Monaldo, il quale non solo ha assecondato le intuizioni e gli interessi culturali dei propri figli, ma ha concesso a Paolina gli stessi privilegi e diritti di formazione dei figli maschi, contravvenendo alle restrizioni del tempo. Nei locali dell’antico frantoio, si snoda il percorso museale adiacente alla casa. Nelle teche, sono custoditi gli abiti da battesimo e la culla del piccolo Giacomo, l’uniforme da gonfaloniere di Monaldo e i suppellettili di Adelaide. Tra i giochi dei fratelli Leopardi, colpisce un piccolo altarino, sembra che i tre giocassero a recitar la Santa Messa e che le vesti di officiarla spettassero alla sorella Paolina. A seguire, il set da scrittura in ceramica usato per la stesura de L’infinito e i manoscritti delle opere giovanili d’ispirazione classica, una passione – ma anche un gioco da bambino – per cui Leopardi vestiva i panni di Ettore e andava a battagliare nel giardino di casa contro i fratelli. Il percorso cronologico si conclude con i frammenti degli abiti di Giacomo e il legno della tomba sita nella Chiesa di San Vitale in Fuorigrotta.

Più di ogni oggetto, cattura la mia attenzione il manoscritto autografo de L’infinito con le correzioni apportate dal poeta medesimo. In particolare, mi cattura la sostituzione della parola “immensità” con “infinità” che riappare nella stesura definitiva e su cui evidentemente aveva indugiato il poeta. Una riflessione sul termine che appare scontata a chi ha studiato le sue opere, ma che non doveva apparire altrettanto scontata al poeta impegnato nella revisione dei versi. Prima del congedo con la guida, uno scambio di battute era inevitabile e non ho resistito a interrogarlo sulla spinosa questione “del pessimismo cosmico leopardiano” indagato da Croce, De Sanctis, Binni. “Pessimismo per difetto o per eccesso?”. Abbiamo buone speranze di vedere la questione superata anche dalle “cattive antologie scolastiche”, ma occorrerà aspettare ancora qualche anno.

Basti pensare che Binni – interprete del “titanismo leopardiano” – ha risolto la querelle critica incentrata sul “pessimismo” mettendo a fuoco la morale costruttiva espressa nella Ginestra, che ci restituisce un Leopardi animato “da una nuova disposizione a vivere intensamente e vigorosamente nel presente (senza ricorsi alla memoria e al passato), a esercitare tutte le proprie forze di eroica tensione sentimentale, intellettuale e morale in una virile concentrazione della propria esperienza e del suo valore”. Un invito a vivere “qui e ora” in quell’ attimo “infinito” che è conquista di felicità e inno alla vita: un canto che si ripete ancora oggi, 200 anni dopo.


 


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