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 sabato 4 novembre 2017

PRESENTAZIONE LIBRO

Firenze, Leone Piccioni: lezioni su Montale

di Tiziana Santoro


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A Firenze, nella suggestiva cornice della Sala Ferri, sita in Palazzo Strozzi, Mario Biondi, Giuseppe Conti, Giuseppe Grattacaso e Silvia Zoppi Garampi hanno presentato il libro “Com’è tutta la vita e il suo travaglio. Lezioni su Ossi di Seppia di Eugenio Montale”. Il volume comprende 100 lezioni svolte da Leone Piccioni (nella foto), noto critico letterario e vicepresidente Rai, su Montale e rivolte agli studenti dell’Università IULM di Milano. L’autore, esperto critico di Ungaretti, non ha rinunciato a raccontare Montale ai suoi studenti, fermamente convinto che in poesia non ci siano schieramenti, bensì che tutta la poesia possa e debba trovare spazio nel cuore e nella vita degli uomini. Svincolato da ogni schieramento culturale e polemica, Piccioni ha agito da critico libero da pregiudizi e intellettualismi e ha spiegato gli Ossi di Montale verso per verso, attraverso una prosa attenta agli aspetti universali, poi simbolici e lessicali, sempre mettendone a fuoco la “bellezza letteraria”.

Della parola e della rima, Piccioni ha colto soprattutto l’effetto musicale, il suono e il ritmo che descrivevano le variazioni di un paesaggio, il quale non si discostava mai dallo stato d’animo del poeta. In “Ossi di Seppia” – sosteneva il critico – Montale offriva la “lettura dentro se stesso e in rapporto col paesaggio”. La lirica di Montale, pur nascendo da una dimensione interiore, diveniva universale perché relativa al significato spirituale e ideale dello stato d’animo assunto dall’uomo nel mondo. Piccioni, allievo di De Roberto e Ungaretti, esperto conoscitore di 40 anni di critica letteraria e dell’approccio critico di Contini, riprendeva il concetto crociano di “poesia”-“non poesia” e lo approfondiva, a suo modo. Dopo aver analizzato il fenomeno del “montalismo” e osteggiato lo schematismo di certi critici, Piccioni puntava l’attenzione sul messaggio genuino e letterale della poesia, perché la più grande lezione di Montale è circoscritta a quella capacità di “vincere la noia, sapendo attendere i trasalimenti dell’anima”.

Il critico Piccioni si rivolgeva agli studenti dell’Università IULM e non perdeva mai di vista le peculiarità dei suoi interlocutori: quegli studenti erano giovani aspiranti a leggere e a comprendere una poesia ostica. Questo ha determinato la scelta di un metodo d’insegnamento che si rispecchiava fedelmente nella personalità di Piccioni: letterato e al tempo stesso comunicatore. Il critico, fermamente convinto che maestro e discepolo dovessero condividere un codice, rifiutava l’approccio tecnico, esclusivo ed escludente di Contini, prediligeva la lettura e il commento all’analisi puntigliosa del testo e cercava nella letteratura “la verità di incontri della cattedra e della vita”. Fermamente convinto che la grande poesia non avrebbe mai potuto escludere nessuno, compieva in aula una vera e propria “mediazione ecclesiastica” per avvicinare a Montale i suoi studenti. Rinunciava a farsi portavoce di una letteratura secondaria, per concentrarsi solo su quella primaria.

Il critico era attento a mettere a fuoco la poetica della negazione che accompagnava ogni affermazione del poeta e attraverso cui egli restituiva l’esperienza della grande guerra sotto forma di memoria acustica e visiva. Affidando l’esperienza della guerra all’oblio, Montale, rifiutava la retorica poetica dei suoi tempi. Allo stesso modo, Piccioni, lontano da presupposti retorici, comunicatore e inventore di situazioni e incontri, parlava a un pubblico vasto. Nelle sue pagine, utilizzava frequentemente il termine “umanità”, convinto che la poesia dovesse e potesse parlare a tutti. Piccioni incarnava il modello del “critico-facilitatore”, “viveva la letteratura da dentro”, il suo punto d’osservazione non era mai esterno e lontano. Il critico guardava sempre dall’interno. La più grande lezione che il docente ha fornito agli studenti dell’Università IULM è che “la letteratura si può raccontare e che il commento è l’idea di raccontare la letteratura”.

Quando si rivolgeva ai giovani, Piccioni non usava citazioni che avrebbero potuto creare barriere e allontanarlo dagli studenti, egli metteva a fuoco il destinatario e rimuoveva tutto ciò che poteva essere d’ostacolo alla comunicazione. L’approccio rivoluzionario del critico e ancor più del docente era nella consapevolezza che “la parola non doveva escludere, ma offrire la strada per un’interpretazione, dando all’allievo l’idea che non esisteva mai una sola interpretazione”. Comunicatore e divulgatore del sapere, ma pur sempre uomo di raffinata cultura, Piccioni non rinunciava a interrogarsi sull’utilità della poesia, pertanto, è approdato a una concezione ideale e spirituale del messaggio poetico. Piccioni sosteneva che la poesia non fosse utile, ma che nell’inutilità completa, risiedesse il massimo dell’utilità morale. Con questa definizione, il critico toccava il culmine dell’universalismo, ribadiva quel suo intimo affetto e quella sua spiccata attenzione per l’umanità.

Al termine dell’incontro, è stata trasmessa l’intervista esclusiva di Piccioni a Montale, incontro concesso dal poeta esclusivamente per stima e amicizia verso il critico. Quest’ultima è un frammento indispensabile per ricordare al pubblico che i poeti sono vivi, sono uomini d’intelletto, ma anche dotati d’ironia e sensibilità personale. Piccioni, intervistatore, ha restituito l’immagine di un poeta-uomo che non si prendeva troppo sul serio, che canzonava il suo talento multiforme con naturalezza, assecondando la casualità della vita. Sorprende di Montale, questo suo essere sempre dentro se stesso e la scrittura, infatti, anche quando la moglie combatteva per la vita in ospedale, Montale rimaneva saldo e ripiegato in sé, dentro quella vita intesa come esperienza intima, travaglio dell’animo, che trovava espressione concreta nella sua arte. Montale, durante l’intervista, riconosceva come legittima la propria libertà di scrittura ed anche quella d’interpretazione del lettore.

Poco importa, dunque, se egli abbia scritto di Papa Anacleto, come qualcuno crede, piuttosto che di un caricatore di fucili, perché l’esercizio critico dell’interpretazione è una libertà fondamentale che l’uomo non può non esercitare. Piccioni, tuttavia, quando voleva trasmettere l’immagine più intima di Montale, rinunciava alla affascinazione delle immagini, si affidava al racconto. Quello di un pomeriggio milanese, in cui interloquiva col poeta della sua poesia preferita “Spesso il male di vivere ho incontrato”. A questo punto, il critico si abbandonava al ricordo di un Montale canuto e stanco, sprofondato nella sua poltrona, con cui recitava sentitamente quei versi. Al termine del coro, Piccioni notò che Montale piangeva. La poetica aveva rivelato, ancora una volta, la sua universalità: l’empatia profonda tra due uomini del mondo che nel mondo sentono insieme.


 


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