PERSONAGGI
Bukowski: scatti fotografici di un viaggio
di Tiziana Santoro
Una
buona ragione per leggere “Shakespeare
non l’ha mai fatto” – di Charles Bukowski – può trovare fondamento in
quella certa ostilità che taluni lettori nutrono verso la letteratura di
genere, in particolare per ciò che attiene al “diario di viaggio”. Se non v’interessa razionalizzare un
itinerario, apprendere usi, costumi e tradizioni delle popolazioni autoctone di
un luogo, allora questo è il libro
giusto. Colui che, negli anni ‘70, aveva commissionato a Charles di scrivere un
diario di viaggio sulla sua vacanza-lavoro in Europa, probabilmente non aveva
considerato che lo scrittore non amava viaggiare. Quindi, l’unico viaggio che l’autore
avrebbe potuto restituire ai suoi lettori era quello di un uomo che, con tutti
i suoi limiti e le sue intemperanze, si sforzava, da una prospettiva non sempre
lucida, di mettere a fuoco l’umanità e la realtà.
Come
sottolinea Simona Viciani, più che un diario di bordo quello di Bukowski è un
insieme di “scatti fotografici”, di
momenti-verità. Su tutto impera “l’anarchia
di pensiero” dell’autore, un artista senza radici: né troppo americano, né
troppo tedesco, Bukowski riesce nell’impresa tutta personale di essere “fuori-luogo” un po’ ovunque e, allo
stesso tempo, un “catalizzatore di folle”
sensibili alla sua “arte senza regole”.
Gli europei, più degli americani, erano succubi del fascino di un “autore-personaggio” imprevedibile e non
allineato alla cultura letteraria e accademica di quegli anni. Quando un
giovane Enrico Franceschini, ancora aspirante giornalista, ha compiuto il suo
primo viaggio in America alla ricerca di Bukowski, aveva avuto il privilegio di
chiedergli perché avesse scelto di scrivere. La risposta dello scrittore è
indicativa di quali fossero i suoi rapporti con la cultura e la sua idea di
letteratura.
In
quell’occasione, Bukowski aveva
soddisfatto il suo interlocutore rispondendo, semplicemente, che scrivere, per
lui, era una “cosa facile da fare”.
La letteratura come il comunismo, secondo l’autore, avevano sempre fallito, l’unico
ruolo in cui si riconosceva, era quello di “scrittore-pagliaccio”
che diverte, che si diletta, che segue più l’istinto del pensiero, che
asseconda un talento irrazionale e dirompente. L’autore rifiuta di rivestire un
ruolo istituzionale e ammonisce, così, i suoi colleghi: “Troppi scrittori sono diventati insegnanti, guru; si sono dimenticati
della loro macchina da scrivere”. Eppure quell’estate, Bukowski, a
Martkthall, aveva dovuto affrontare la folla di 1200 ammiratori. Sulla paura di
deludere i suoi estimatori, vinceva sempre la naturalezza e la spontaneità di
un uomo capace di “straparlare-lucidamente”
anche in preda agli effetti dell’alcol.
Il
vino, nella vita dello scrittore, un vizio? Più semplicemente, una lente
attraverso cui si sforzava, continuamente, di avvicinare, allontanare,
deformare, mettere a fuoco la realtà. Perché il pubblico amava tanto le sue
poesie, benché non fossero intellettuali? Solamente perché le capivano, perché
per le persone, così come per l’autore, “la
vita era insopportabile” e neppure la morte aveva troppo significato.
Entrambe apparivano allo scrittore troppo sopravvalutate. La prima: monotona,
noiosa, imbrigliata nei ruoli, nei doveri, in una quotidianità incolore; la
seconda: più onerosa solo per chi viene lasciato, che per chi se ne va.
E
la sacralità dell’arte? Quella “scia d’immortalità”
che spetta a ogni artista reputato degno di essere tale? Ebbene, anche quella
scia, secondo Bukowski è “una colpa”
di chi vive e non di chi muore e certamente “non è colpa dell’artista (…) che non appartiene all’immortalità più di
quanto è appartenuto alla vita”. Questo libro
è oltremodo sconsigliato agli amanti dei musei. L’autore li odiava tutti,
perché odiava la grandiosità e il confronto. Preferiva bere vino con gli amici
nelle camere d’albergo, guardare film, vagare per le strade e guardare l’umanità,
quell’umanità che “ha tenuto gli occhi aperti tutto il Santo
giorno e ha visto troppo” senza mai capire “la matematica delle cose”.
Non c’è spazio per il “divino” nella
vita dello scrittore, il suo sentimento è tutto per i dannati e i perdenti. Dal
finestrino del treno, Bukowski ammirava l’ordine fiabesco di certi villaggi, ma
constatava che al loro interno si aggiravano uomini agonizzanti, messi alla
prova dalla vita. L’unico antidoto possibile? La creazione: un modo per urlare,
prima ancora che un’intuizione intellettuale.
L’unico
vantaggio che un lettore può trarre dal diario di viaggio di Bukowski è un’angolazione
da cui osservare la realtà e gli uomini e se per qualche ragione si trovasse in
empatia con l’autore, potrebbe soddisfare qualche curiosità sulla sua storia
personale: i genitori, la suocera, lo zio novantenne, gli amici, i vizi e l’amore.
L’autore per tutto il viaggio è accompagnato dalla compagna Linda Lee. Come
egli stesso ci tiene a precisare, ha impiegato 60 anni per incontrarla. Luoghi
comuni e cliché letterari che riguardano Bukowski e le donne? Ammiccamenti
maschilisti che ne hanno mitizzato il misoginismo ce ne sono fin troppi e,
quasi sempre, a torto. Nessun retaggio culturale o intellettualistico,
Bukowski-uomo era soltanto “uno che
provava a capirci qualcosa” e per cui “l’incontro”
era sempre più deludente del “non
incontrarsi”.
Per
capire “l’amore”, dunque, Bukowski ha
deciso di “vivere le donne”. Il punto
di arrivo dell’autore è “non
accontentarsi”, perciò ammoniva: “La
maggior parte della gente vive all’ombra del compromesso: capisce bene che non
funziona del tutto, ma non importa, facciamocelo andare bene (…) cosa c’è alla
TV stasera? Niente. Beh, guardiamola lo stesso (…)”. Quella vissuta con
Linda, invece, è “l’unione perfetta”.
Lo scrittore sostiene che, nonostante non avessero nulla in comune, la loro
relazione avesse come motore una “tollerabile
e intollerabile distanza” per cui continuavano a incontrarsi “senza risolvere” e “senza la speranza di risolvere nulla”. Bukowski e Linda,
semplicemente, “erano”, “si vivevano” senza pretese, senza la
presunzione di colmare quelle distanze che, piuttosto, andrebbero accettate. Il
“viaggio-sentimentale” di Bukowski si
conclude con le sue poesie, appunti sparsi, intuizioni creative che investono e
sorprendono il lettore.
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