LIBRI
Magari domani resto: vitalismo, ironia e sentimento nel racconto di Lorenzo Marone
di Tiziana Santoro
Un
romanzo corale ambientato a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove la
protagonista Luce deve continuamente misurarsi con le difficoltà quotidiane: un
lavoro disonesto, una famiglia problematica e un amore immaturo e infelice.
Luce vive una vita che non le corrisponde e si muove a fatica entro dinamiche
familiari che la opprimono ed infastidiscono. La madre, donna bigotta e abbandonata
dal marito, non riusciva a comunicare né con i figli, né con la nonna
Giuseppina. Antonio, il fratello sfuggito alle cattive compagnie per intervento
della stessa Luce, ha preso le distanze dalla famiglia d’origine e ha scelto d’inventarsi
un’altra esistenza al Nord. Luce e sua madre si amano, ma non si comprendono,
ciascuna conserva il suo segreto e solo quando il silenzio lascerà spazio alle
verità scomode, riusciranno a recuperare il loro rapporto.
È
avvincente, in “Magari domani resto”,
l’impianto narrativo: un sentimento del racconto partenopeo che Marone attua
con naturalezza, facendo coesistere armoniosamente digressioni, analessi e
prolessi funzionali alla suspense. Ciascun personaggio coesiste in modo corale
con l’altro, eppure ciascuno di loro ha una propria storia personale, una
propria psicologia e un proprio colore; ciascuno potrebbe vivere di vita
propria ed essere, a sua volta, protagonista di un altro romanzo. A
sottolineare la coralità dell’opera,
è la vera protagonista, la vita: quel mistero inaccessibile, quel pullulare di
sentimenti, speranze, delusioni sogni, paure, rancori; quella ricerca
spasmodica dell’arte di vivere che è arrangiarsi, lottare, ma, persino,
abbandonarsi al suo fluire e alla sua imprevedibilità.
Nel
coro, spicca un canone a tre voci: quello tra la giovanissima Luce, volitiva
donna del Sud che segue più la pancia che la testa; la nonna nel cui ricordo
rivivono amore e saggezza e l’anziano Don Vittorio, un musicista-filosofo sulla
sedia a rotelle, il quale con le sue riflessioni sulla vita, conferisce
spessore e leggerezza alla narrazione. I dialoghi si snodano per immagini,
Marone – ancora una volta – attinge al popolo napoletano al suo saper vivere e
rappresentarsi attraverso il movimento, i contrasti e i colori. Accade, così,
che Luce presenta se stessa come un pesce rosso, che inquina l’acqua della
boccia in cui respira. Risponde e fa da eco il saggio don Vittorio, un brigante
del vivere, che ha scelto di andare per mare, di scrutare altri orizzonti e di
percorrere strade poco affollate.
Due
sognatori, Luce e Vittorio, alla costante ricerca di scenari migliori. La
differenza tra i due sta nell’esperienza di chi ha imparato che “a immergersi troppo nel profondo si rischia
d’incontrare il buio” e che certe volte basta “cambiare d’animo e non di cielo”
per apprezzare la vita. Ma Luce è giovane e arde in lei “a freve ‘e vita”: una spasmodica ricerca della felicità, che le fa
anteporre le passioni agli obiettivi. Proprio mentre Luce lotta contro tutto e
contro tutti, mentre scalpita e si dimena per sfuggire al suo destino e alla
quotidianità, la vita avviene: si scopre amica di Carmen, si improvvisa una
seconda mamma per Kevin, trova il coraggio di lasciare il lavoro e di
affrontare a muso duro l’ex fidanzato, quell’eterno Peter Pan che con la sua
fuga in Thailandia le ha insegnato cosa non è l’amore. Luce, abbandonandosi
alla vita, incontrerà l’amore di Thomàs, artista di strada: sentirà quel
brivido, quell’emozione in cui si racchiude la vita, per poi mutare nuovamente
e ricominciare col suo ciclo infinito.
Più
di ogni altra cosa, Luce scoprirà che l’amore vive nelle attenzioni quotidiane:
quelle del cane Alleria, quelle per Kevin, per Vittorio e per i membri
acquisiti della sua “insolita famiglia”. L’amore trae forza dalla coralità e
dalle vite dei personaggi, dall’intreccio dei loro destini, dall’abbraccio
familiare di Antonio, Luce e della mamma, che hanno attraversato un’esistenza
prima di riscoprirsi aggrappati l’uno all’altra e trovare il coraggio di
seguire il flusso delle loro vite. Per riscoprirsi uniti, i protagonisti hanno
dovuto scardinare i luoghi comuni sulla famiglia tradizionale, hanno dovuto
lasciare andare il passato, le persone ingombranti e aprire le braccia a
persone nuove. La famiglia unita è quella scelta con il cuore, quella che
alleggerisce e non appesantisce, quella che risolve i problemi e non li crea,
quella se si compone mentre i personaggi stanno vivendo. Davanti ai loro occhi,
è la rondine Primavera che, dopo non poche esitazioni, trova il coraggio per
uscire dalla gabbia e spiccare il volo, più per istinto che per scelta
consapevole.
E
Luce? Spiccherà il volo? Non sono esclusi partenze e ritorni, ma nel frattempo,
Luce ha imparato la lezione: “… dove sta
scritto che le cose devono durare per sempre (…) qui le cose durano quanto
durano, una farfalla vive qualche giorno, un’orchidea appassisce dopo tre mesi
e un cane muore a quindici anni. Così, è e nessuno può farci niente. Perciò, mi
farò bastare quel che sarà, ma in quel che sarà, puoi star certo, metterò tutta
me stessa”. L’ultimo capitolo è dedicato al padre della protagonista e
svela il mistero del suo abbandono: una voce su nastro è il suo unico saluto ai
figli. È un capitolo denso di emozione, perché svela al lettore che un’assenza,
talvolta, può insegnare a vivere più di una presenza. Il padre esorta i figli a
non seguire il suo esempio, a non fuggire davanti alle difficoltà e a essere
curiosi, coraggiosi, liberi e allegri: “Non
partite solo per fuggire e non restate solo perché non avete il coraggio di
prendere nuove strade.
Siate sempre aperti ai
cambiamenti, scegliete un obiettivo e puntatelo, però, sappiate che se pò semp’
fallì, che ca nisciuno è perfetto. E non smettete mai di essere curiosi, pecché
a curiosità è ‘na forma ‘e coraggio (…) ho fatto del mio meglio per insegnarvi
a campare liberi e allegri”. Il registro dei sentimenti e del
cuore e la tensione emotiva della narrazione e dei dialoghi, sono costantemente
smorzati dall’ironia e dalla sagacia di personaggi minori, che, improvvisamente,
irrompono come macchiette: sono straordinariamente umani, meschini, limitati,
anticonvenzionali, gelosi, insicuri scanzonati, truffaldini. Sono l’umanità, la
rappresentazione dei nostri limiti e dei nostri appetiti, ma non sono mai
spietati, persino il terribile camorrista, alla fine sceglie la via della pace;
che sia una scelta morale di Marone, quella di accettare anche i tratti un po’
meschini della società senza esprimere condanne, ma ridendoci sopra? I suoi
personaggi, Marone li ama tutti, persino Manuel: l’avvocatuccio-seduttore del
quartiere, di cui scrive: “sono proprio i
tizi come lui ad arrivare sino in fondo
al traguardo, quelli senza peso, che non affondano mai o che, se lo fanno, dopo
poco tornano, comunque, a galleggiare, come un turacciolo.”
L’opera
di Marone è un piccolo capolavoro narrativo del nostro tempo, come un novello
Verga conferisce realismo e lirismo al suo racconto, con attenzione e cura del
linguaggio, l’aggiunta di una bonaria ironia ariostesca e, persino, una colonna
sonora. Quest’ultima è un omaggio all’artista Pino Daniele, di cui fanno
capolino qua e là, citazioni e versi. Un doppio dono quello di Marone ai suoi
lettori che, intenti in una piacevole lettura, hanno quasi l’impressione di
ascoltare, a radio spenta, la colonna sonora della loro vita.
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