AVVISO: Questo sito a breve non sarà più raggiungibile, Filo Diretto News con le sue notizie ed i suoi servizi sono disponibili al nuovo indirizzo web: www.filodirettonews.it
Oggi è 
 
 
   
Prima Pagina > Cultura e Società > Recensioni > La voce degli dei di Jung in “Fai bei sogni”: dal libro al film

 lunedì 21 novembre 2016

RECENSIONE

La voce degli dei di Jung in “Fai bei sogni”: dal libro al film

di Tiziana Santoro


alt

Recentemente, prende vita sul grande schermo, “Fai bei sogni”, il Racconto autobiografico del giornalista Massimo Gramellini. Per l’occasione, il regista Marco Bellocchio ha selezionato un cast d’eccezione. Tra i protagonisti: Valerio Mastrandrea è Massimo e Bérénice Bejo è la sua futura moglie. Nel ruolo dei genitori del protagonista si distinguono, per l’intensità magistrale della loro interpretazione, Guido Caprino e Barbara Ronchi. Il regista Bellocchio mette a fuoco la storia-verità: quella del piccolo Massimo che rimane orfano di madre all’età di 9 anni e che scoprirà, solo dopo 40 anni, dell’avvenuto suicidio della donna. Una verità intuita e taciuta nell’inconscio. In mezzo, c’è il vissuto del protagonista: la sua anaffettività, il bisogno smisurato d’amore, l’incapacità di donarlo e la paura di combattere per i propri sogni. A proteggere Massimo da una “verità scomoda” è “Belfagor”, quell’amico immaginario che per impedirgli di soffrire lo aiuta a “staccare la corda dei sentimenti”, trasformando la sua energia vitale in nevrosi. Il romanzo è, principalmente, il percorso intrapreso dal protagonista e la storia dei tentativi fatti per riagganciare quella corda dei sentimenti.

Infatti, solo riconnettendosi al suo dolore più feroce, Massimo tornerà all’amore per la vita e ai suoi affetti. Il Gramellini del romanzo è pura energia vitale, è una persona in crescita e in evoluzione. L’attore Mastrandrea non ha taciuto – nelle interviste rilasciate – la difficoltà di doversi misurare con un personaggio che è reale e contemporaneo. Ecco, perché ha preferito non rifarsi al libro, ma al copione, anteponendo alla persona-Massimo il personaggio che è portatore di “una vicenda emotiva”, in cui chiunque può identificarsi. Sulla stessa linea agisce Bellocchio, disposto a cedere sulla cadenza romana dell’attore protagonista, per mettere a fuoco la tristezza espressa dai suoi occhi. Questa stessa tristezza, però, tradisce l’energia positiva e l’impianto volitivo del racconto. Bellocchio riesce meglio ad addentrarsi dentro al film quando, attraverso la “tecnica del ribaltamento”, smorza la commozione e lascia fluire l’ironia di Gramellini, rompendo schemi e patetismi che non appartengono al registro della narrazione. Maggiormente, in linea col testo scritto è Guido Caprino, che ha ammesso di aver scorto nelle pagine di Gramellini il “bisogno” sentito dal suo personaggio: un uomo solo, inadeguato nel crescere un figlio, ma che in età matura ammette la difficoltà di non essere riuscito a creare il dialogo necessario.

Intensissima, negli sguardi e nelle movenze, Barbara Ronchi: come un fantasma aleggia sempre, irrompe nel racconto, si coglie in lei il mistero di un’infelicità che è presagio e chiave di volta dell’intera vicenda. Un film – quello di Bellocchio – in cui c’è spazio per scene intense, avvertite come sospese in un tempo che si dilata. L’anaffettività del protagonista è tutta espressa nella scena ambientata a Sarajevo, in cui avviene l’incontro con un orfano di guerra, senza che vi sia identificazione tra il protagonista e il bambino. Questo è l’estremo atto del protagonista di non ammettere l’esistenza del lutto e del dolore come possibili. Altrettanto efficace è la scena del gioco “nascondino”, in cui la madre finge di abbandonare il protagonista e che sottintende una paura sempre presente, che condizionerà a lungo le esperienze di vita di Massimo. Il finale – ha dichiarato Bellocchio – è la chiusura dentro un ricordo, un’eterna nostalgia. Ancora il regista, per dare profondità alla storia, documenta con precisione dove e quando avviene, senza mai spostare la camera da presa e l’attenzione dal destino del bambino protagonista. Si ritrovano nella storia musiche, immagini e luoghi della Torino di Gramellini.

La scena che segna la conquista della verità e di se stesso – da parte del protagonista – è espressa attraverso il ballo scatenato e liberatorio e il bacio dato alla moglie: finalmente, Massimo toglie il freno e si lascia andare, lascia fluire un’energia che è rimasta bloccata, contratta, nel volto e nei gesti dell’attore protagonista, per tutta la durata del film. Una contrattura interiore e gestuale che lo spettatore avverte sino alla fine. Attenzione a non lasciare spazio a fraintendimenti, a salvare il protagonista non è una donna – che si rivela quella giusta, proprio perché non intende fargli da madre – ma l’intuizione. Nel libro, Gramellini cita Jung, in particolare “la voce degli dei”: quei simboli che tutti noi possiamo scorgere nelle favole, nella musica e nei miti. Un linguaggio universale del cuore, che non ha bisogno di parole e ragionamenti. Se impariamo a stare in silenzio, a spegnere il rumore e ad ascoltarci – sostiene Gramellini – “allora la nostra intuizione ci suggerirà sempre qual è la cosa giusta da fare e chi è la persona adatta a noi”, perché “la vita ha senso, sempre, anche quando quel senso non ci piace”.

Anche se nessuno aveva rivelato al protagonista la causa della morte della madre, lui aveva custodito quella verità nel suo inconscio per 40 anni; ma aveva scelto di vivere senza voler ascoltare “la voce degli dei”, coprendola con rumori, pensieri ed emozioni. L’antidoto di Gramellini è fare bei sogni: “Solo chi fa bei sogni attinge all’energia dell’universo, quella dell’amore. Non coniughiamo più i verbi al futuro. E se sparisce il futuro il primo a morire sarà il presente”. L’ultima pagina della storia – quella che non trova riscontro nella narrazione cinematografica – è, forse, quella più importante: l’esortazione del protagonista a dare vita ai propri sogni, quelli per cui siamo venuti al mondo. Se Bellocchio ha mancato in qualcosa, possiamo dire che è venuto meno in lui l’ascolto di quella “voce degli dei” che ha dato forza, vitalità ed energia al libro. Rimane allo spettatore cinematografico solo “la foto-documento”, ciò fa di lui il vero “orfano della rappresentazione”. Chi è seduto in sala, non entra mai in empatia col personaggio e con la sua vicenda, né è destinatario di un messaggio, rimane solo un tiepido spettatore.


 


Altre Notizie su

Cultura e Società > Recensioni






 
Sostenitori
 
 
© 2011/24 - Filo Diretto News | Reg. Tribunale di Messina n° 4 del 25/02/2011 | Dir. Resp. Domenico Interdonato | Condirettore Armando Russo
Redazione - Via S. Barbara 12, 98123 Messina - P.Iva 02939580839