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 lunedì 17 ottobre 2016

RECENSIONE

Il Dolore, le Ombre, la Magia: il canto armonico di Banana Yoshimoto

di Tiziana Santoro


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La scrittrice giapponese Banana Yoshimoto in Il dolore, le ombre, la magia, come un usignolo dal canto armonioso, accarezza l’anima dei lettori servendosi delle delicate riflessioni di Shizukuishi. La protagonista è una ragazza cresciuta in montagna che, a causa di un incendio, ha dovuto lasciare i suoi affetti e la sua dimora per iniziare una nuova vita in città. Quella di Shizukuishi è la storia di chi attraversa il dolore della separazione e deve fare i conti con la vita che cambia. Da una condizione di disorientamento, torpore esistenziale e dolore personale, Shizukuishi approda ad una rinnovata condizione di armonia, che è conquista consapevole del proprio valore e riscoperta dell’altro da sé. Intorno a lei, come luci nello spazio cosmico, si muovono gli altri personaggi: Kataoka giallo intenso (grande e rotondo), Kaede color lavanda (sensibile e delicato), Shin’ichiro verde chiaro (separato dagli altri), la nonna color rosso scuro (magica e terrena). Come sfere incandescenti, le persone simili si sovrappongono, quelle dissimili si allontanano in un moto perpetuo che è fatto di incontri e separazioni. Come una pianta Shizuishi perde vitalità lontano dal suo habitat, ma trapiantata in città nutrirà le sue radici grazie all’amore degli altri e influenzerà, a sua volta, la vita dei suoi nuovi amici.

Ciascun incontro lascerà nel cuore della protagonista un insegnamento profondo: osservando Kaede, imparerà che l’amore per il suo lavoro è il solo modo in cui gli occhi possono vedere il mondo; Shin’ichiro le rivelerà che la magia è ovunque e in qualsiasi cosa, se riuscirà a costruire dei ricordi insieme alle altre persone e se capirà che amare significa sentire che ogni istante è irripetibile. L’insegnamento della nonna è espresso nella cura con cui, sin da piccola, la educava ad abbandonarsi al sonno, quando irrigidita si ostinava a non lasciare andare il giorno che sfumava. Sullo sfondo si agitano gli abitanti della città: presenze dai contorni sfumati, fragili e intenti a compiere gesta di resistenza quotidiana, a difendersi dal cristallizzarsi dei ruoli, a bilanciare strenuamente obiettivi e rischi, drammi profondi e felicità minime. Nonostante ciò, le persone come “piante vigorose e magiche” dimostravano di possedere “una forza enorme e arcana, che avrebbe permesso loro di rinascere sempre: non si consumavano mai”.

La protagonista imparerà che il dolore apre gli occhi e che “comunque la si voglia mettere, esiste solo l’oggi e che ogni giorno è diverso dal precedente”. Così Shizuishi lascerà andare il dolore, la tristezza, la noia ed accetterà il cambiamento e le separazioni, giacché le persone “esistono solo nell’istante presente” e sono come i cactus: fioriscono raramente, le puoi fotografare quanto vuoi, ma finiscono tutte per scomparire. Ciò che rimane è la sua forza vitale “imbracciare i remi e cominciare a vogare” verso una nuova vita, propagando nell’universo – come in uno specchio d’acqua – tracce di sé. Il cactus trapiantato e cresciuto dopo le cure e l’attesa, testimonia che è possibile rinascere, riappropriarsi della propria vita, evolversi indipendentemente dagli altri e riprendere a battere le ali. È questo un incantesimo che si rinnova ogni volta che il dolore fa di noi una persona migliore.


 


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