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 mercoledì 28 ottobre 2015

IL VINO

Il dolce dono degli Dei

di Alfonso Saya


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Il poeta latino, Orazio, è stato il più grande cantore del vino e lo ha celebrato come lo avrebbero celebrato, sulla sua scia, il Carducci, il Pascoli, il Rossini e tanti altri. Orazio era amante delle belle donne, della buona tavola, dei simposi allegri e frizzanti di vino, “il dolce dono degli Dei”. Ma non era, come si dice, un epicureo cioè un gaudente senza posa, non “appendeva serti di rose a Venere”, non celebrava, di continuo, la gloria a Bacco poiché è vero l’assioma, “Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere”. Era saggio, equidistante dagli estremismi (in medio stat virtus), aveva il senso sereno, ellenico della vita, amava la Bellezza. Il vino, a suo avviso, deve essere bevuto con misura, con sobrietà, per godere dei benefici effetti che sa dare; bisogna cercare, come in tutte le cose, il giusto equilibrio “il soverchio rompe il coperchio”. Il vino, nella giusta misura, è una medicina e risparmia angosce e timori, pene e dolori, caccia via gli affanni. Orazio all’amico Plauco, consiglia: “Così tu, saviamente, ricordi di dare una tregua alle tristezze e all’affannosa vita con dolce vino…” e ad un altro amico: “Mesci prodigo, dall’anfora, vino di quattro anni, perché il Nume agli astemi rende difficile tutte le cose, perché non dileguano se non col vino gli affanni. Il vino è il dolce dono degli Dei e accende l’estro creativo e fa dimenticare”.

Però, invita l’amico al buon senso, all’equilibrio, al godimento assennato della vita che è un attimo fuggente per cui bisogna goderselo, “Cingiamoci di rose prima che sfioriscono”. Il vino con il pane è segno di sacralità antica, di un’arcaica civiltà contadina fatta di sudore e fatica. Forse per questo motivo, il pane e il vino diventarono Eucaristia, Gesù Cristo li scelse per tramutarli nel suo Corpo e nel suo Sangue. “Pani e vinu ‘nforzanu lu schinu” si dice. Sono segni di gioia, di vita, di festa: “Carni fa carni, pani fa panza, ma lu vinu fa danza”. Un anonimo siciliano, qualche secolo fa, cantava: “Manciamu, amici miei, e poi bevemu/ infinua quannu c’è ogghiu ‘nta lucerna/ cu lu sapi si all’autru munnu nni videmu/ cu lu sapi si all’autru munnu c’è taverna…”


 


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