DIRITTI
La “buona fede” è sempre presunta?
di Olga Cancellieri
Prima di rispondere al
quesito è opportuno chiarire cosa s’intenda per “buona fede”, istituto frequentissimo non solo nel mondo giuridico,
ma anche nel comune linguaggio di tutti i giorni. “Il vero castigo per chi mente non è di non essere più creduto, ma di non potere credere a nessuno” – George Bernard Shaw. “La
fiducia non si acquista per mezzo della forza. Neppure si ottiene con le sole dichiarazioni. La fiducia bisogna meritarla con gesti e
fatti concreti” – Papa Giovanni Paolo II. Da ciò, è possibile dedurre come la fiducia
può anche essere presunta, ma se non è supportata da fatti concreti, o peggio
si mente a chi c’ha accordato fiducia, si rischia di passare per persone poco
credibili, sempre e comunque. Nel campo del diritto civile, tale regola è solo,
apparentemente, invertita, nel senso che la buona fede è semrpe presunta, ed è
compito di chi la nega dimostare il contrario.
Innanzitutto, però, bisogna
chiarire cosa s’intenda per “buona fede”.
Nel codice civile, e nelle leggi correlate, manca una definizione puntuale del
fenomeno per ognuna delle fattispecie in cui ricorre. In sede d’interpretazione
si distingue tra “buona fede in senso
oggettivo” e “buona fede in senso
soggettivo”. La “buona fede in senso
oggettivo” consiste in una generale regola di correttezza, che deve
ispirare la reciproca condotta delle parti nei rapporti, ad esempio di tipo
contrattuale, e
si esplica, concretamente, in un generico obbligo di lealtà (che vieta di
suscitare, consapevolmente, falsi affidamenti e di contestare ragionevoli
affidamenti della controparte) e in un obbligo di salvaguardia. La “buona fede in senso soggettivo” consiste,
invece, nello stato psicologico di chi ignora di ledere l’altrui diritto. Se ne
trova una definizione in tema di possesso (è possessore di “buona fede” chi possiede ignorando di
ledere l’altrui diritto: art. 1147 c.c.). La legge accorda una speciale tutela
a chi versi in “buona fede”.
In via
generale, essa è presunta: l’onere della prova incombe su chi la contesta. Si
tratta, quindi, di una presunzione non assoluta, che ammette, quindi, la prova
del contrario. Pertanto, chi ritiene che la controparte abbia agito in “mala fede”,
cioè consapevole di ledere un diritto altrui, ha l’onere di dimostrarlo
mediante prove da acquisire in giudizio (quindi mediante testimoni, documenti,
filmati video e aiuto). Infatti, la “buona
fede” si presume, ma fino alla prova
del contrario. Tale presunzione, però, non opera sempre e comunque, non la si
può invocare, infatti, nei casi di mancata conoscenza dell’altrui diritto in
caso di colpa grave.
Non si può, infatti, in generale, invocare la buona fede
per rifiutarsi di conoscere e riconoscere un diritto altrui, quando chiunque,
invece, con facilità potrebbe informarsi e scoprire l’esistenza di un altrui
diritto sul bene a cui si è interessati. Pertanto, l’ordinamento, pone un
argine all’invocazione della “buona fede”,
stabilendo che l’ignoranza di un diritto altrui, anche se in “buona fede”, non è sostenibile se tale
mancata conoscenza è stata determinata da colpa grave. In
conclusione, può ricorrere alla “buona
fede” chi, senza colpa, e pur avendo fatto tutto ciò che era in suo potere
per conoscere l’altrui diritto, ne è rimasto all’oscuro.
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