DETENZIONE
Carcerazione preventiva: un tema difficile
di Olga Cancellieri
“La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà.
Per questo ci si trasforma in pietra” (Oscar Wilde). Col termine carcerazione
preventiva s’intende la detenzione in carcere dell’imputato, non ancora
condannato, in attesa di giudizio. Pertanto, in alcuni casi il nostro
ordinamento prevede che un individuo possa essere posto in una condizione di
detenzione, la custodia cautelare appunto, che può svolgersi in carcere o agli
arresti domiciliari, ancora prima che vi sia una condanna. Ovviamente, può
essere disposta dal giudice, solo su richiesta del pubblico ministero e si
tratta di casi particolari e tassativi cioè: in primo luogo, a carico
dell’imputato devono sussistere gravi indizi di colpevolezza. Tale requisito ha
suscitato qualche polemica e numerose incertezze, non si comprende, infatti,
cosa intenda il legislatore per “gravi indizi di colpevolezza”, ma bisogna
ritenere che devono esserci a capo dell’imputato delle fonti di prova (se non
ancora prove vere e proprie) o degli indizi (dotati però della gravità,
precisione e concordanza con altri indizi, che sono i requisiti che ogni indizio
deve avere per essere preso in considerazione nelle indagini), tali da far
ritenere al giudice già da una prima valutazione, probabile la condanna
dell’imputato.
Inoltre, devono esistere esigenze
relative alle indagini per l’acquisizione e il non inquinamento delle prove. Vi
è, ad esempio, il timore che l’imputato, una volta libero, distrugga documenti,
getti le sostanze stupefacenti sapientemente nascoste. Infine, a determinare la
carcerazione preventiva possono essere fondati timori di fuga, pericolo di uso
di armi o altri mezzi di violenza personale e devono risultare inadeguate tutte
le altre misure non detentive (come il divieto di espatrio, l’obbligo di
presentarsi negli uffici di polizia giudiziaria, il divieto di dimorare in un
determinato luogo o, invece, l’obbligo di dimorarvi). Ciò perché, comunque, nel
nostro ordinamento, la misura detentiva in carcere, in particolare, è davvero
un’extrema ratio, comminabile, quindi, solo quando nessun’altra misura appaia
soddisfacente.
La durata massima della custodia
cautelare non può superare i due anni (pena massima sei anni), quattro anni
(pena massima venti anni), i sei anni (pena massima l’ergastolo o superiore a
venti anni). Ovviamente, il periodo di custodia cautelare si detrae dalla
durata della pena detentiva definitiva. Tuttavia, contro l’ordinanza che
dispone la misura coercitiva è, comunque, possibile presentare opposizione
anche nel merito, con un atto di riesame o di appello al c.d. Tribunale del
Risame (una volta detto “delle Libertà”), mediante il proprio difensore, entro
dieci giorni (termine inderogabile) dall’esecuzione o dalla notificazione. Nel
ricorso al Tribunale del Riesame, è possibile esporre tutte le ragioni per cui
la detenzione cautelare, nel caso specifico è infondata e ingiusta per
l’imputato. Certo però, non è detto che il Tribunale accolga il ricorso, nel
caso di rigetto del ricorso o dell’appello, l’unico rimedio è il ricorso in
Cassazione, ma se anche stavolta va male bisognerà rassegnarsi
a trascorrere in carcere il tempo antecedente alla condanna.
|