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 sabato 14 marzo 2015

DETENZIONE

Carcerazione preventiva: un tema difficile

di Olga Cancellieri


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La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà. Per questo ci si trasforma in pietra” (Oscar Wilde). Col termine carcerazione preventiva s’intende la detenzione in carcere dell’imputato, non ancora condannato, in attesa di giudizio. Pertanto, in alcuni casi il nostro ordinamento prevede che un individuo possa essere posto in una condizione di detenzione, la custodia cautelare appunto, che può svolgersi in carcere o agli arresti domiciliari, ancora prima che vi sia una condanna. Ovviamente, può essere disposta dal giudice, solo su richiesta del pubblico ministero e si tratta di casi particolari e tassativi cioè: in primo luogo, a carico dell’imputato devono sussistere gravi indizi di colpevolezza. Tale requisito ha suscitato qualche polemica e numerose incertezze, non si comprende, infatti, cosa intenda il legislatore per “gravi indizi di colpevolezza”, ma bisogna ritenere che devono esserci a capo dell’imputato delle fonti di prova (se non ancora prove vere e proprie) o degli indizi (dotati però della gravità, precisione e concordanza con altri indizi, che sono i requisiti che ogni indizio deve avere per essere preso in considerazione nelle indagini), tali da far ritenere al giudice già da una prima valutazione, probabile la condanna dell’imputato.

Inoltre, devono esistere esigenze relative alle indagini per l’acquisizione e il non inquinamento delle prove. Vi è, ad esempio, il timore che l’imputato, una volta libero, distrugga documenti, getti le sostanze stupefacenti sapientemente nascoste. Infine, a determinare la carcerazione preventiva possono essere fondati timori di fuga, pericolo di uso di armi o altri mezzi di violenza personale e devono risultare inadeguate tutte le altre misure non detentive (come il divieto di espatrio, l’obbligo di presentarsi negli uffici di polizia giudiziaria, il divieto di dimorare in un determinato luogo o, invece, l’obbligo di dimorarvi). Ciò perché, comunque, nel nostro ordinamento, la misura detentiva in carcere, in particolare, è davvero un’extrema ratio, comminabile, quindi, solo quando nessun’altra misura appaia soddisfacente.

La durata massima della custodia cautelare non può superare i due anni (pena massima sei anni), quattro anni (pena massima venti anni), i sei anni (pena massima l’ergastolo o superiore a venti anni). Ovviamente, il periodo di custodia cautelare si detrae dalla durata della pena detentiva definitiva. Tuttavia, contro l’ordinanza che dispone la misura coercitiva è, comunque, possibile presentare opposizione anche nel merito, con un atto di riesame o di appello al c.d. Tribunale del Risame (una volta detto “delle Libertà”), mediante il proprio difensore, entro dieci giorni (termine inderogabile) dall’esecuzione o dalla notificazione. Nel ricorso al Tribunale del Riesame, è possibile esporre tutte le ragioni per cui la detenzione cautelare, nel caso specifico è infondata e ingiusta per l’imputato. Certo però, non è detto che il Tribunale accolga il ricorso, nel caso di rigetto del ricorso o dell’appello, l’unico rimedio è il ricorso in Cassazione, ma se anche stavolta va male bisognerà rassegnarsi a trascorrere in carcere il tempo antecedente alla condanna.


 


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