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 sabato 4 maggio 2019

LE ORIGINI DI FURNARI

La storia di un Re, un Cane e un Contadino

di Armando Russo


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Questa bella leggenda, narra dell’origine del piccolo paese siciliano di Furnari, in provincia di Messina. Essa – risalente al 1220 – è, addirittura, citata nell’Orlando Furioso, di Ludovico Ariosto, al canto XLI, 30: ... un can d’argento aver vuole Oliviero che piaccia e che abbia sul dorso con un motto che dica… Finchè Venga…”. Furnari è sul fianco d’una collina propaggine del Monte Croce. Le case, strette una all’altra, han strade anguste appena lasci la piazzetta aperta su degradanti colli d’olivi, sulla Piana verde di vigne e di canneti, sul Tirreno che fa golfo tra i capi di Tindari e Milazzo. Di fronte, tra cielo e mare, le Eolie. Ma dove, oggi, le colture degli uomini allineano vigne e olive, otto secoli orsono erano la selva, le macchie e lepri, e volpi avevano tane nell’argilla e c’erano l’istrice il riccio e uccelli di passo. Il paese non vi era ancora: solo in una radura del bosco s’innalzava una casa di muri a secco, dove Antonio Furnari conduceva una povera vita di contadino, dissodando terra nei pressi, in quotidiana lotta con gli sterpi e le erbacce.

Fu qui che le vie del destino di Ruggero II d’Altavilla incontrarono il sentiero che conduceva alla casa nel bosco. Forse, una lepre inseguita dalla muta dei cani indicò quel sentiero, ma vi contribuì certo la mano di un arciere inesperto che, per sbaglio, colpì il veltro che più la premeva da presso. Guaendo il cane s’accasciò ed il re d’un balzo gli fu accanto e se lo raccolse in grembo, premendo la mano aperta sulla ferita; ma il sangue scorreva lo stesso, a fiotti. Bisognava far presto per dargli aiuto. I cacciatori imprecavano: proprio a quel cane doveva capitare tanto danno, all’amico indivisibile del re, al migliore della muta. Qualcuno scorse allora la casa sul verde e additò il sentiero, e su esso s’affrettarono tutti e primo il re che teneva in braccio il cane. Così, Antonio Furnari se li vide davanti; subito nell’aia fu un concitato muoversi attorno a quel cane che si torceva nello spasimo e tentava invano di leccarsi la ferita. Fu tratta acqua dal pozzo, le bende, portate dal contadino, passarono di mano in mano.

Ma il cane fasciato, non si reggeva in piedi. Il Furnari guardava i visi abbuiati dei cacciatori, visi rudi, arsi dalle intemperie e dal sole; mirava, soprattutto, gli occhi azzurri del più aitante di loro che, chino sulla povera bestia, scoteva il capo. Che gente era? Da dove veniva? Ma già quegli occhi si levavano su di lui col guizzo della decisione dentro: “Io debbo, assolutamente, andare e il cane non può seguirmi. Te lo lascio in consegna: abbine cura che, prima o poi, verrò io stesso a prenderlo”. E s’era appena curato dell’assenso del contadino, come se le cose che gli aveva detto gli fossero dovute, come se quel cane per vivere – pensò in seguito il Furnari – non avesse bisogno di cibo e si nutrisse d’aria del ricordo delle carezze del padrone. II re se ne andò senza rivelare chi in realtà fosse. Passarono i giorni, le settimane, i mesi. Antonio Furnari curava e nutriva il cane. Si toglieva il pane dalla bocca per darlo a lui, abbandonava la zappa fra il maggese per andare a cercarlo non appena gli scompariva davanti agli occhi.

Da quando era guarito, il veltro non faceva che agitarsi ad ogni frullo d’ali e scattare in folle corsa anche dietro un fiuto di selvaggina. Alto, agile e snello era veramente uno splendido animale. E per quanto schifiltoso di molti cibi, mangiava più di un uomo – notava il Furnari – troppo per la povertà di un contadino come lui che, a stento, la sera riusciva a metter la pentola sul fuoco. E il tempo trascorreva senza che il suo padrone si facesse vivo. Forse s’era scordato del cane. Qualcuno propose al Furnari che glielo vendesse, ma egli, sdegnosamente, respingeva ogni offerta; aveva promesso attendere il ritorno del cacciatore e avrebbe mantenuto impegno a costo di qualunque sacrificio: solo a lui avrebbe consegnato il cane. Molti incominciarono a beffarlo: “È sempre dietro a quella bestia; rifiuta il denaro che gli offrono: attende il Messia”. E a tutti lui – uomo di grande levatura morale – rispondeva che avrebbe tenuto con sé il cane “Finchè venga!”. E ci favoleggiavano sopra parlando di stregonerie, del veltro che aveva il diavolo in corpo, che compariva e scompariva fulmineo per le balze del bosco.

Ma un giorno, squillarono trombe per la selva e l’eco dai colli rimbalzò sulla Piana. Uno stuolo di cavalieri con le insegne regali, con le croci d’oro sugli scudi lucenti, si fermò davanti alla casa del contadino e Ruggero, in splendide vesti, smontò da cavallo. Antonio Furnari allibì`: “Eccoti il cane – disse – ho atteso il suo ritorno”. E il cane faceva balzi di gioia e guaiva sfregandosi alle gambe del padrone. Ma il re sembrò notare appena la bestia. Come assorto guardava la povertà del luogo e il contadino lacero sull’uscio della casa sbilenca. Un pensiero improvviso gl’illuminò gli occhi e gli spiano la fronte: “Antonino Furnari – disse – nel nome di Dio e in premio della tua fedeltà ti creo barone di queste terre. Il tuo stemma sarà un cane in campo rosso con la scritta ‘Finchè venga’”. La casa coi muri a secco divenne presto un palazzo con lo scudo sul frontale e attorno cominciarono a sorgere fitte le case, fra esse, le strade scesero ai campi arati. Negli anni seguenti, attorno al castello del barone cominciarono a nascere le prime povere case dei contadini che lavoravano nelle sue proprietà. Nel tempo si formò un villaggio che – nei secoli – divenne un bel piccolo centro collinare.

I secoli portarono vicende liete e tristi nel piccolo paese; le generazioni si susseguirono. Sotto la spinta del progresso mutarono modi e sistemi di vita, ma – a conferma che i valori dello spirito sono immutabili ed eterni – sul gonfalone di Furnari c’è sempre lo scudo col cane e la scritta, a ricordo della parola data da un uomo ormai perduto nel tempo. E così, anche se la storia documentata vuole che Furnari abbia origine intorno al 1300, quando un certo Filippo Furnari, trasferitosi da Genova in Sicilia, ottenne il titolo di Barone e circa 1300 ettari direttamente dall’imperatore Federico II per i servizi fornitogli, ci piace pensare che il bel monumento con lo stemma del paese, raffigurante un cane levriero in campo rosso e la scritta “Fin chè Venga” rimanga per tutti ad eterno ricordo del valore della fedeltà e del rispetto alla parola data.


 


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