L’Università di Messina,
giovedì 13 febbraio u.s., ha
organizzato una serata, con tanto di dibattito, sul film Smetto quando voglio, alla presenza del regista Sydney Scibilia, un trentenne salernitano alla sua prima opera, e del
personaggio principale, l’attore-regista Edoardo Leo.
Il film è, veramente,
notevole e originale per il contenuto, che sceglie un tema di attualità, il “precariato
di eccellenza”; piacevole e divertente, perché riesce a far riflettere, ma con
leggerezza, ironia e allegria, e innovativo, in quanto mixa la commedia italiana
con i movies americani.
Belle anche le
sceneggiature e le riprese, sia esterne che all’interno (come le scene in
discoteca); il ritmo degli avvenimenti, già incalzante, è enfatizzato da brani musicali pop/rock scelti
sapientemente.
Anche se, com’è stato detto nel dibattito, l’intento non era quello di
“lasciare un messaggio”, ma di far godere al pubblico un prodotto divertente, tuttavia,
qualche riflessione sull’attuale contesto sociale italiano, a me l’ha
suscitata.
La vicenda raccontata è paradossale
e, al contempo, profondamente “vera e attuale”, perché mette in luce l’assurda
realtà, in questo caso, universitaria, ma potrebbe essere, tranquillamente,
ambientata anche in altro contesto, che chi ha tutti i numeri per eccellere, e quindi dovrebbe essere riconosciuto per il suo valore, non lo è affatto, anzi, si ritrova a dover sbarcare il
lunario.
Al contrario, chi non possiede lo stesso rigore scientifico per logiche
diverse, quanto – ahimè – diffuse, pur avendo conquistato, immeritatamente, il proprio
spazio di onori e ricchezze, resta chiuso in un
gretto egoismo e cerca ancora di più solo per se stesso.
I “ricercatori”
diventano quindi “ricercati”, o meglio, diventano una “banda”.
Visto che per loro non c’è
posto in un mercato “normale”, piegano le loro
intelligenze sia per entrare nel mercato legale/criminale che per uscirne con
astuzia. Mi ha colpito l’evidente “spirito di corpo” che lega i componenti del
gruppo sia nella buona che nella cattiva sorte. In gergo scientifico, tale atteggiamento
verrebbe definito “capacità di lavorare in team”,
ma in questo caso, a mio avviso, è anche capacità di guardare oltre il proprio
Io, per condividere le stesse ansie lavorative e le stesse frustrazioni e per
trovare una via d’uscita dalla precarietà.
I protagonisti sono
delle “stelle”, in un firmamento che non le riconosce, “stelle” che, metaforicamente, precipitano
e poi risalgono, dai parossismi intellettuali a quelli materiali (il mancato
rinnovo del contratto, la necessità di sopravvivere, anche come coppia, in una
crisi finanziaria e valoriale da brivido).
Ecco, che Sidney
Scibilia mette in scena, in modo disincantato e in chiave grottesca, l’intuizione
geniale del protagonista di ritrovare quella dignità lavorativa negata, il
clientelismo imperante e il malaffare che, come
una piovra, s’insinua in tutti i gangli della società, anche in quella cd. “bene”.
“Certamente, non si può fare di tutte le erbe un
fascio” – come egli ha voluto
sottolineare, rispondendo a qualche osservazione autoreferenziale di qualche
docente.
Eppure, mi vien da
pensare che l’Italia è uno dei Paesi a più alto tasso di corruzione, che
abbiamo importanti strumenti normativi, come il Piano “anticorruzione e per la
trasparenza” o il “Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (di cui
anche l’Amministrazione universitaria è dotata), che dovrebbero prevenire/impedire
l’assunzione del raccomandato di turno e dovrebbero, invece, tenere in giusto
conto la persona, veramente, meritevole.
Visto, però, che ad utilizzare
questi strumenti sono gli uomini, con i loro difetti e le debolezze, non basta
la legge o la sanzione: servono comportamenti individuali improntati all’onestà
e alla correttezza, non pensare che siano gli altri a dover cambiare, non farsi
irretire nel momento in cui si conquistano denaro e potere.
Infatti, come succede ai
componenti della “banda dei ricercatori” – che non sono criminali anche se lo
diventano, temporaneamente, per necessità –, il guadagno facile li farà uscire
fuori dai binari della sapienza e della sobrietà. Alla fine, prevarrà il buon
senso, perché c’è un figlio di mezzo cui assicurare la sopravvivenza e allora meglio
una vita, magari ordinaria, ma dignitosa e senza più adrenalina, anche se,
certamente, immeritata e ingiusta per il talento sprecato.
Auguro al regista e ai
fantastici attori un successo mondiale. Io rimarrò in attesa del prossimo film!