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 lunedì 17 febbraio 2014

RECENSIONI CINEMATOGRAFICHE

Visione e dibattito sul film “Smetto quando voglio”

di Grazia De Tuzza


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L’Università di Messina, giovedì 13 febbraio u.s., ha organizzato una serata, con tanto di dibattito, sul film Smetto quando voglio, alla presenza del regista Sydney Scibilia, un trentenne salernitano alla sua prima opera, e del personaggio principale, l’attore-regista Edoardo Leo.

Il film è, veramente, notevole e originale per il contenuto, che sceglie un tema di attualità, il “precariato di eccellenza”; piacevole e divertente, perché riesce a far riflettere, ma con leggerezza, ironia e allegria, e innovativo, in quanto mixa la commedia italiana con i movies americani.

Belle anche le sceneggiature e le riprese, sia esterne che all’interno (come le scene in discoteca); il ritmo degli avvenimenti, già incalzante, è enfatizzato da brani musicali pop/rock scelti sapientemente.

Anche se, com’è stato detto nel dibattito, l’intento non era quello di “lasciare un messaggio”, ma di far godere al pubblico un prodotto divertente, tuttavia, qualche riflessione sull’attuale contesto sociale italiano, a me l’ha suscitata.

La vicenda raccontata è paradossale e, al contempo, profondamente “vera e attuale”, perché mette in luce l’assurda realtà, in questo caso, universitaria, ma potrebbe essere, tranquillamente, ambientata anche in altro contesto, che chi ha tutti i numeri per eccellere, e quindi dovrebbe essere riconosciuto per il suo valore, non lo è affatto, anzi, si ritrova a dover sbarcare il lunario.

Al contrario, chi non possiede lo stesso rigore scientifico per logiche diverse, quanto – ahimè – diffuse, pur avendo conquistato, immeritatamente, il proprio spazio di onori e ricchezze, resta chiuso in un gretto egoismo e cerca ancora di più solo per se stesso.

I “ricercatori” diventano quindi “ricercati”, o meglio, diventano una “banda”.

Visto che per loro non c’è posto in un mercato “normale”, piegano le loro intelligenze sia per entrare nel mercato legale/criminale che per uscirne con astuzia. Mi ha colpito l’evidente “spirito di corpo” che lega i componenti del gruppo sia nella buona che nella cattiva sorte. In gergo scientifico, tale atteggiamento verrebbe definito “capacità di lavorare in team”, ma in questo caso, a mio avviso, è anche capacità di guardare oltre il proprio Io, per condividere le stesse ansie lavorative e le stesse frustrazioni e per trovare una via d’uscita dalla precarietà.

I protagonisti sono delle “stelle”, in un firmamento che non le riconosce, “stelle” che, metaforicamente, precipitano e poi risalgono, dai parossismi intellettuali a quelli materiali (il mancato rinnovo del contratto, la necessità di sopravvivere, anche come coppia, in una crisi finanziaria e valoriale da brivido).

Ecco, che Sidney Scibilia mette in scena, in modo disincantato e in chiave grottesca, l’intuizione geniale del protagonista di ritrovare quella dignità lavorativa negata, il clientelismo imperante e il malaffare che, come una piovra, s’insinua in tutti i gangli della società, anche in quella cd. “bene”.

Certamente, non si può fare di tutte le erbe un fascio” – come egli ha voluto sottolineare, rispondendo a qualche osservazione autoreferenziale di qualche docente.

Eppure, mi vien da pensare che l’Italia è uno dei Paesi a più alto tasso di corruzione, che abbiamo importanti strumenti normativi, come il Piano “anticorruzione e per la trasparenza” o il “Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (di cui anche l’Amministrazione universitaria è dotata), che dovrebbero prevenire/impedire l’assunzione del raccomandato di turno e dovrebbero, invece, tenere in giusto conto la persona, veramente, meritevole.

Visto, però, che ad utilizzare questi strumenti sono gli uomini, con i loro difetti e le debolezze, non basta la legge o la sanzione: servono comportamenti individuali improntati all’onestà e alla correttezza, non pensare che siano gli altri a dover cambiare, non farsi irretire nel momento in cui si conquistano denaro e potere.

Infatti, come succede ai componenti della “banda dei ricercatori” – che non sono criminali anche se lo diventano, temporaneamente, per necessità –, il guadagno facile li farà uscire fuori dai binari della sapienza e della sobrietà. Alla fine, prevarrà il buon senso, perché c’è un figlio di mezzo cui assicurare la sopravvivenza e allora meglio una vita, magari ordinaria, ma dignitosa e senza più adrenalina, anche se, certamente, immeritata e ingiusta per il talento sprecato.

Auguro al regista e ai fantastici attori un successo mondiale. Io rimarrò in attesa del prossimo film!


 


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