AVVISO: Questo sito a breve non sarà più raggiungibile, Filo Diretto News con le sue notizie ed i suoi servizi sono disponibili al nuovo indirizzo web: www.filodirettonews.it
Oggi è 
 
 
   
Prima Pagina > Cultura e Società > Riflessioni > Il Risorgimento e il ruolo dei notabili del Sud

 venerdì 23 novembre 2018

STORIA

Il Risorgimento e il ruolo dei notabili del Sud

di Nicola Alfano


alt

Proviamo a chiederci quali sono i mali che affliggono il Sud, cos’è che tiene legato il Sud al palo e non fa in modo che cresca come il resto del Paese? Ma soprattutto, perché il Sud non cresce pur in presenza di importanti risorse e materie prime presenti nel territorio (leggi petrolio, acqua e patrimonio culturale e ambientale)? Rispondere a queste domande non è certo facile, anzi, ma tentare di risolvere vuol dire fare un grosso passo avanti nello sviluppo e nella crescita di questa parte depressa del Paese. Di sicuro le colpe non vanno ricercate tutte all’esterno; la maggior parte dei problemi del Mezzogiorno ha la sua genesi proprio al Sud. Cerchiamo di capirci partendo un po’ da lontano, da quel 1861 anno dell’Unificazione nazionale.

Buona parte della storiografia risorgimentale descrive il processo di unificazione come un atto di conquista del Nord ai danni del Sud; c’è chi si spinge poi a definire questa “conquista regia” come un atto di colonialismo, come si evince dalla fortunata serie di libri pubblicata da Pino Aprile sull’argomento. In realtà, la questione è molto più complicata. Fermo restando che le responsabilità storiche della classe dirigente sabauda sono documentate e sotto gli occhi di tutti, come si evince anche dalla ricostruzione che ne fa Giordano Bruno Guerri (cfr. G.B. Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Oscar Mondadori, 2015), dove lo storico rilegge la vicenda del Risorgimento e del brigantaggio come “antistoria d’Italia”, liberando la storiografia risorgimentale di molti luoghi comuni e sottolineando la scelta di affrontare la “questione meridionale” solo in termini di annessione, tassazione, leva obbligatoria e repressione militare. Se tutto questo è vero e documentato, meno lo è un’altra parte, e cioè le responsabilità del Mezzogiorno e della sua classe dirigente in tutta questa faccenda. Perché non pensabile e storicamente non sostenibile che il tutto sia avvenuto solo per le responsabilità piemontesi.

E i notabili del Sud che ruolo hanno ricoperto in questa faccenda? Quindi, un’indagine storica accurata deve condannare le ingiustizie e i massacri compiuti in nome dell’unificazione, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni raccontati da Bruno Guerri un tremendo castigo che sia d’esempio alle altre popolazioni del Sud” (G.B. Guerri, op. cit., p. 140) o le fucilazioni che come scrive ancora Bruno Guerri “nella capitale dell’ex Regno […] nel solo mesi di luglio del 1861, il generale Cialdini aveva fatto fucilare, tra Napoli e dintorni, quasi seicento briganti, oppositori confessi e presenti. Non si contano più le incarcerazioni, a centinaia, di preti e laici” (Ibidem, p. 143). In questa vera e propria guerra civile dobbiamo chiederci che ruolo hanno giocato i notabili del Sud? È lo stesso Bruno Guerri a dircelo, quando parla del massacro di Pontelandolfo: “Pontelandolfo, oggi in provincia di Benevento, era uno dei paesi più ostili ai piemontesi. Da sei anni, era sindaco Lorenzo Melchiorre, un latifondista corrotto, abilissimo nel salto sul carro del vincitore, come dimostrò subito applicando alla lettera bandi e ordinanze. Era appoggiato da tutti i notabili locali. A osteggiare il nuovo corso, era rimasto, con intransigenza temeraria, il sacerdote Epifanio De Gregorio, sostenuto dai contadini e da molti nostalgici borbonici” (Ibid., p. 141).

Ecco, allora, che dalla testimonianza storica di Bruno Guerri (una tra le tante) emerge quello che è l’anello mancante del processo di unificazione: il ruolo giocato dalla classe dirigente latifondista del Sud. Un ruolo “ambiguo”, oggi potremmo definirlo borderline tra le due parti in causa, ma sempre pronto a schierarsi con il vincitore, calpestando i diritti di quella gente che solo a parole tutelavano. A parole. Perché con i fatti di diritti tutelavano solo i loro, lasciando che tutte quelle persone che ogni giorno si levavano il cappello al loro passaggio o gli assicuravano parte del raccolto (il migliore) venissero torturate, incarcerate e messe a morte. In nome di un cambio di casacca. È sintomatico il fatto che a difendere i diritti dei contadini di Pontelandolfo ci fosse solo un prete, mentre coloro che “materialmente” dovevano difendere i loro concittadini, avevano deciso di mandarli alla forca. A ben vedere questa caratteristica di voltagabbana, è una caratteristica che si è perpetuata in gran parte della classe dirigente meridionale fino ai giorni nostri.

La questione storica, quindi, risiede nella difesa strenua dei “propri diritti” da parte dei latifondisti meridionali, come il “diritto della terra”, in quegli anni espropriata all’asse ecclesiastico che venne sciolto. Nella lottizzazione che ne seguì, i latifondisti tennero alto il prezzo della terra, in modo da far fuori i piccoli contadini i quali aspiravano ad acquistarla; e anche quando questi ultimi riuscirono a comprarla, a prezzi altissimi, nel giro di pochi anni dovettero cederla per non essere in grado di far fronte al debito contratto. Quindi, tutti i possedimenti terrieri espropriati al disciolto asse ecclesiastico, nel giro di pochi anni passarono nelle mani dei grandi latifondisti e proprietari terrieri. I quali per mantenere lo status quo avevano tutto l’interesse a “ingraziarsi” i nuovi padroni. Possiamo vedere che si crea un circolo vizioso tra classe dirigente sabauda, capitalismo industriale del Nord e latifondismo agrario del Sud, in modo tale che la nuova realtà politica non trovi ostacoli per la sua attuazione.

E poco importa se per arrivare a ciò bisogna sfruttare gli operai del Nord o massacrare poveri contadini del Sud. A ben vedere, furono proprio operai e contadini coloro che pagarono il prezzo più alto dell’unificazione. Ma, per quel che ci riguarda, la colpa maggiore sta nella classe dirigente meridionale dell’epoca, la quale per perpetuare le sue angherie secolari, ha avvallato massacri e fucilazioni. È da questo problema irrisolto che nasce la “questione meridionale”, cioè di una parte del Paese “venduta” dai suoi stessi rappresentanti e amministratori per proprio tornaconto. L’emigrazione fu il naturale sbocco di una situazione, quella meridionale, che ormai era diventata ingestibile. Ma, nonostante ciò, tutti i governi postunitari che si susseguirono negli anni non fecero nulla per colmare questo solco che si era creato tra le due parti del Paese.

L’autore

Originario della comunità Arberesche della Lucania, laureato magistrale in Lettere, Nicola Alfano vive e insegna in provincia di Varese: appassionato di giornalismo storico e di politologia, collabora con varie testate giornalistiche. Soprattutto con “Il Mattino”.


 


Altre Notizie su

Cultura e Società > Riflessioni






 
Sostenitori
 
 
© 2011/25 - Filo Diretto News | Reg. Tribunale di Messina n° 4 del 25/02/2011 | Dir. Resp. Domenico Interdonato | Condirettore Armando Russo
Redazione - Via S. Barbara 12, 98123 Messina - P.Iva 02939580839