STORIA
Il Risorgimento e il ruolo dei notabili del Sud
di Nicola Alfano
 Proviamo
a chiederci quali sono i mali che affliggono il Sud, cos’è che tiene legato il
Sud al palo e non fa in modo che cresca come il resto del Paese? Ma
soprattutto, perché il Sud non cresce pur in presenza di importanti risorse e
materie prime presenti nel territorio (leggi petrolio, acqua e patrimonio
culturale e ambientale)? Rispondere a queste domande non è certo facile, anzi,
ma tentare di risolvere vuol dire fare un grosso passo avanti nello sviluppo e
nella crescita di questa parte depressa del Paese. Di sicuro le colpe non vanno
ricercate tutte all’esterno; la maggior parte dei problemi del Mezzogiorno ha
la sua genesi proprio al Sud. Cerchiamo di capirci partendo un po’ da lontano,
da quel 1861 anno dell’Unificazione nazionale.
Buona
parte della storiografia risorgimentale descrive il processo di unificazione
come un atto di conquista del Nord ai danni del Sud; c’è chi si spinge poi a
definire questa “conquista regia” come un atto di colonialismo, come si evince
dalla fortunata serie di libri pubblicata da Pino Aprile sull’argomento. In
realtà, la questione è molto più complicata. Fermo restando che le
responsabilità storiche della classe dirigente sabauda sono documentate e sotto
gli occhi di tutti, come si evince anche dalla ricostruzione che ne fa Giordano
Bruno Guerri (cfr. G.B. Guerri, Il sangue
del Sud. Antistoria del Risorgimento
e del brigantaggio, Oscar Mondadori, 2015), dove lo storico rilegge la
vicenda del Risorgimento e del brigantaggio come “antistoria d’Italia”,
liberando la storiografia risorgimentale di molti luoghi comuni e sottolineando
la scelta di affrontare la “questione meridionale” solo in termini di
annessione, tassazione, leva obbligatoria e repressione militare. Se tutto
questo è vero e documentato, meno lo è un’altra parte, e cioè le responsabilità
del Mezzogiorno e della sua classe dirigente in tutta questa faccenda. Perché
non pensabile e storicamente non sostenibile che il tutto sia avvenuto solo per
le responsabilità piemontesi.
E
i notabili del Sud che ruolo hanno ricoperto in questa faccenda? Quindi, un’indagine
storica accurata deve condannare le ingiustizie e i massacri compiuti in nome
dell’unificazione, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni raccontati da
Bruno Guerri “un tremendo castigo che sia
d’esempio alle altre popolazioni del Sud” (G.B. Guerri, op. cit., p. 140) o le fucilazioni che
come scrive ancora Bruno Guerri “nella
capitale dell’ex Regno […] nel solo mesi di luglio del 1861, il generale
Cialdini aveva fatto fucilare, tra Napoli e dintorni, quasi seicento briganti,
oppositori confessi e presenti. Non si contano più le incarcerazioni, a
centinaia, di preti e laici” (Ibidem, p. 143). In questa vera e propria
guerra civile dobbiamo chiederci che ruolo hanno giocato i notabili del Sud? È lo
stesso Bruno Guerri a dircelo, quando parla del massacro di Pontelandolfo: “Pontelandolfo, oggi in provincia di
Benevento, era uno dei paesi più ostili ai piemontesi. Da sei anni, era sindaco
Lorenzo Melchiorre, un latifondista corrotto, abilissimo nel salto sul carro
del vincitore, come dimostrò subito applicando alla lettera bandi e ordinanze.
Era appoggiato da tutti i notabili locali. A osteggiare il nuovo corso, era
rimasto, con intransigenza temeraria, il sacerdote Epifanio De Gregorio,
sostenuto dai contadini e da molti nostalgici borbonici” (Ibid., p. 141).
Ecco,
allora, che dalla testimonianza storica di Bruno Guerri (una tra le tante)
emerge quello che è l’anello mancante del processo di unificazione: il ruolo
giocato dalla classe dirigente latifondista del Sud. Un ruolo “ambiguo”, oggi
potremmo definirlo borderline tra le due parti in causa, ma sempre pronto a
schierarsi con il vincitore, calpestando i diritti di quella gente che solo a
parole tutelavano. A parole. Perché con i fatti di diritti tutelavano solo i
loro, lasciando che tutte quelle persone che ogni giorno si levavano il
cappello al loro passaggio o gli assicuravano parte del raccolto (il migliore)
venissero torturate, incarcerate e messe a morte. In nome di un cambio di
casacca. È sintomatico il fatto che a difendere i diritti dei contadini di
Pontelandolfo ci fosse solo un prete, mentre coloro che “materialmente” dovevano
difendere i loro concittadini, avevano deciso di mandarli alla forca. A ben
vedere questa caratteristica di voltagabbana, è una caratteristica che si è
perpetuata in gran parte della classe dirigente meridionale fino ai giorni
nostri.
La
questione storica, quindi, risiede nella difesa strenua dei “propri diritti” da
parte dei latifondisti meridionali, come il “diritto della terra”, in quegli
anni espropriata all’asse ecclesiastico che venne sciolto. Nella lottizzazione
che ne seguì, i latifondisti tennero alto il prezzo della terra, in modo da far
fuori i piccoli contadini i quali aspiravano ad acquistarla; e anche quando
questi ultimi riuscirono a comprarla, a prezzi altissimi, nel giro di pochi
anni dovettero cederla per non essere in grado di far fronte al debito
contratto. Quindi, tutti i possedimenti terrieri espropriati al disciolto asse
ecclesiastico, nel giro di pochi anni passarono nelle mani dei grandi
latifondisti e proprietari terrieri. I quali per mantenere lo status quo
avevano tutto l’interesse a “ingraziarsi” i nuovi padroni. Possiamo vedere che
si crea un circolo vizioso tra classe dirigente sabauda, capitalismo
industriale del Nord e latifondismo agrario del Sud, in modo tale che la nuova
realtà politica non trovi ostacoli per la sua attuazione.
E
poco importa se per arrivare a ciò bisogna sfruttare gli operai del Nord o
massacrare poveri contadini del Sud. A ben vedere, furono proprio operai e
contadini coloro che pagarono il prezzo più alto dell’unificazione. Ma, per
quel che ci riguarda, la colpa maggiore sta nella classe dirigente meridionale
dell’epoca, la quale per perpetuare le sue angherie secolari, ha avvallato
massacri e fucilazioni. È da questo problema irrisolto che nasce la “questione
meridionale”, cioè di una parte del Paese “venduta” dai suoi stessi
rappresentanti e amministratori per proprio tornaconto. L’emigrazione fu il
naturale sbocco di una situazione, quella meridionale, che ormai era diventata
ingestibile. Ma, nonostante ciò, tutti i governi postunitari che si susseguirono
negli anni non fecero nulla per colmare questo solco che si era creato tra le
due parti del Paese.
L’autore
Originario
della comunità Arberesche della Lucania, laureato magistrale in Lettere, Nicola
Alfano vive e insegna in provincia di Varese: appassionato di giornalismo
storico e di politologia, collabora con varie testate giornalistiche.
Soprattutto con “Il Mattino”.
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