Chi
abbia sentito un concerto nel quale la molteplice solennità di un grande organo
si fonda con i suoi morbidi, versatili, della zampogna, o con quelli flebili
del flauto pastorale, allora – com’è successo a me nella Cattedrale di Messina
–, sicuramente, ne è rimasto colpito ed emozionato. E magari, si lascia vincere
dalla curiosità e vuole saperne di più sul musicista audace che osa l’esecuzione
della musica classica con gli strumenti, ai quali il tenace popolo dei
Peloritani affida un patrimonio di armonie che gli giunge da una remota,
mitica, civiltà: gli strumenti che egli chiama friscalettu e ciaramedda: il
flauto pastorale e la zampogna, appunto.
La
storia di Pietro Cernuto è una storia che vale la pena ascoltare, perché è
semplice e bella, fatta di passione per la musica classica e di duro studio al
Conservatorio, di un’eccellenza conquistata con la perseveranza e la dedizione.
È la storia di chi, al sassofono della banda militare dell’Esercito Italiano,
ha conservato fede al ‘primo amore’: alla musica popolare. È una storia che mi
è stata raccontata con la semplicità di chi non è si è insuperbito per gli
inviti ai festival, le tournées internazionali, le prestigiose collaborazioni,
i riconoscimenti, molti con il gruppo degli Unavantaluna: gli ambasciatori
delle tradizioni siciliane nel mondo, che nel 2016 la Regione Sicilia ha
premiato – ricordiamo almeno questo – con la “Zagara d’Argento”. Nella mia
intervista, comincio da qualche domanda, oserei dire “banale”, ricevendo alcune
risposte che, tutto sommato, mi aspetto; altre mi sorprendono. E credo proprio
che anche altri resteranno sorpresi. Ma ecco il testo.
Lei è nato e
cresciuto nell’ambiente semplice, ‘bucolico’, dei ‘villaggi’ costieri
messinesi. Come si trova a Roma?
“Ovviamente, mi pesa vivere lontano dal mio
paese (Galati Marina), dai miei affetti, ma posso dirmi fortunato di vivere a
Roma: mi sono ambientato benissimo, insieme alla mia famiglia. Mi porto dietro
le mie radici siciliane, messinesi, con orgoglio, nostalgia, e tanta rabbia
quando vedo quante cose dovrebbero cambiare perché la gente stia davvero bene”.
Quali
sono stati i suoi esordi nella musica? E quando ha capito che sarebbe stata la
sua vita?
“Ho fatto i primi passi nella banda musicale
di Santo Stefano Medio, con il maestro Carmelo Gennaro: so di dovergli
moltissimo sia per la mia formazione musicale che per la mia formazione umana.
Con dedizione, pazienza, esperienza, il maestro Gennaro mi ha dato solide basi
tecniche grazie alle quali ho potuto intraprendere il mio percorso. Da lui,
quando avevo 10 anni, mi portò il mio compianto padre: furono loro a scegliere
per me il sassofono, lo strumento che avrei poi suonato per ‘mestiere’. La cosa
davvero buffa è che, fino a quel momento, non sapevo neanche cosa fosse.
Un inizio, questo
della banda, che mi è sempre rimasto dentro, ed è perciò – penso – che mi sento,
davvero, realizzato nella banda dell’Esercito: il mio è un lavoro che richiede
impegno e professionalità altissimi, ma che dà anche tante gratificazioni. E
tante gratificazioni mi vengono dai gruppi dei quali faccio parte: i ‘Flauti di
Toscanini’ con il maestro Totti, i Tamatrio, i Tamburi del Vesuvio, e
soprattutto il mio gruppo, gli Unavantaluna: una famiglia posso dire, un gruppo
di amici, prima che di musicisti. Del resto, senza l’amicizia, l’esecuzione è
senz’anima: il pubblico se ne accorge, tu te ne accorgi”.
E poi torna agli
esordi: È stato difficile convincere la sua famiglia a sostenerla nella sua
scelta di vista?
“La mia famiglia non si è mai opposta! Anzi
al contrario. Se ho perseverato e sono riuscito ad andare avanti, a superare
difficoltà e scoraggiamento nel lungo cammino, è stato grazie alla mia
famiglia, che mi ha aiutato in ogni modo ad affrontare gli studi e i momenti
difficili. Loro mi hanno sostenuto quando stavo per mollare tutto e cambiare
strada. Le ho già detto che mio padre mi accompagnò di sua iniziativa dal
maestro Gennaro, fidandosi del giudizio di mio nonno, Paolo Pellegrino che,
aiutato anche da altri anziani di Galati Marina, fu il mio primo maestro di
zampogna”.
Il
nonno Paolo le ha insegnato anche il friscaletto?
“No, no ... quello l’ho imparato da solo, e,
infatti, uso una diteggiatura assolutamente personale. Però, un maestro l’ho
avuto: il signor Sostene Puglisi mi ha insegnato a costruirlo!”.
Dunque,
Pietro Cernuto non solo è un autodidatta del friscalettu, ma conosce anche le
tecniche della sua costruzione, molto probabilmente antica di secoli. Ma è
venuto il momento di chiedergli qualcosa della sua formazione classica, della
sua esperienza con il sax. Mi risponde con la gentilezza e la carica umana che
lo caratterizzano, e anche con un pizzico di ironia.
Dove ha conseguito
la sua formazione classica? Ricorda qualche maestro in particolare?
“Al Corelli, dove mi sono diplomato [e per
modestina non aggiunge con il massimo dei voti], sono stato allievo del maestro
Vito Soranno che ora insegna al Duni di Matera: un docente di grande valore, e
di grande umanità: gli sono molto grato per il suo insegnamento”.
Il
sax mi fa pensare al jazz: ce ne sono influenze sulle sue composizioni?
“Io e il jazz non ci siamo quasi mai ‘cercati’,
anche se per la verità ho suonato tante volte con jazzisti bravissimi. Così,
seppure nei miei testi risento di tante influenze, non credo di avere contratto
particolari debiti con questa forma di musica”.
Le
riesce difficile conciliare la musica delle nostre ‘radici’ con la musica
classica?
“Sono due mondi diversi, totalmente, amo la
musica classica così come le mie radici: le amo ambedue e mi trovo per così
dire tra due cuori, però non sento – e credo di averlo fatto capire – la
necessità di rinunciare a nessuno dei due. Anche se, a ben pensarci, una cosa
in comune ce l’hanno: ti costringono a misurare le forze mentre interpreti, e
in qualche modo sono loro a valutarti, a farti capire quanto vali”.
Trova che,
attualmente, il clima internazionale sia favorevole a una tutela della musica
popolare? A suo dire, le istituzioni, soprattutto quelle locali, potrebbero
fare di più e meglio per proteggere gli strumenti della tradizione e
valorizzarne il patrimonio di armonie e canti?
“Oggi come oggi, il numero di persone che si
avvicinano alla musica, e la scelgono come ‘mestiere’ è, decisamente, in
crescita. Pensi al numero di CD che si incidono o di gruppi che si formano ...
. C’è, quindi, bisogno di aiuto, certamente, e di sensibilità da parte degli
amministratori, di iniziative serie allo scopo di promuovere e salvaguardare le
nostre tradizioni, non solo quelle musicali. È un fatto di dignità .... Nelle
tradizioni c’è la Storia di un popolo!”.
Se potesse fare
qualcosa per Messina, da questo punto di vista, cosa farebbe? Ha un sogno
professionale nel cassetto? Per esempio, un laboratorio permanente di
ciaramedda e friscalettu?
“Ah, qui tocca un punto debole!!! Restituirei
volentieri quello che ho ricevuto, mi dedicherei con passione a una scuola che
perpetuasse la costruzione degli strumenti tradizionali, le tecniche di
esecuzione, le armonie, i ritmi .... Una scuola per i piccoli e gli
adolescenti, certo! C’è moltissimo da preservare, in tutto il Sud, in tutta la
Sicilia, e a Messina – come credo la mia esperienza provi – più che in altre
parti ... Sarebbe bellissimo che il Messinese averse più rispetto per sé:
invece, per lo più guarda altrove e si disinteressa di tutto quello nostra
bellissima città offre o peggio lo disprezza. Da Messinese ‘incallito’ e – se
permette – da buddaci io, invece, ne vado fiero e grazie a Dio non sono davvero
il solo: così, mi sembra che il mio sogno, oggi, sia meno irrealizzabile che
nel passato”.
Che cosa significa
“buddaci” lo sappiamo io e lei, perché siamo tutti e due messinesi, ma lo
vogliamo spiegare ai lettori che non lo sono?
“Ah, vero [e ridiamo]! Il buddaci è il
pesce-palla, che si pesca abbastanza di frequente nelle acque dello Stretto di
Messina: ha una forma sferica e una grandissima bocca, così noi chiamiamo
buddaci noi stessi, per il costume cittadino di parlare molto, e magari a
vanvera ...”.
Ma
lo vogliamo aggiungere che anche il nostro dialetto è un patrimonio da
preservare? Tanto per fare un
esempio, buddaci deriva, direttamente, dal Latino ‘bulla’, ossia ‘sfera’, ‘palla’.
Grazie dell’intervista e buon 2019, gentile maestro Cernuto.