RIFLESSIONI
Ottimisti, pessimisti o cosa?
di Redazione
Diciamocelo
francamente: non è aggirando i problemi, sorvolando su certe tematiche
prioritarie, tergiversando nei dibattiti (siano essi televisivi o di piazza) o
anche dialogando in politichese (quasi esso fosse uno slang alla moda) che si
innescano percorsi virtuosi in grado di delineare o far intravedere strategie
vincenti e risposte credibili: i dibattiti finiscono spesso con l’essere uno
sterile elenco di responsabilità pregresse cui nessuno ha mai fornito una
soluzione, un rendiconto di cose non fatte da chiedere al responsabile di
turno; quest’ultimo, lasciato con il cerino in mano, è costretto ad abbozzare
(annaspando) soluzioni credibili per quanto accaduto in precedenza. Di fatto,
quindi, si ripropone la solita scena, sempre uguale e sempre quella e ad
abboccare ripetutamente non sono altro che gli spettatori di turno, vale a dire
i cittadini. Non essendo, ormai, alunni delle scuole elementari o medie, che di
fronte al maestro si rimpallano fanciullescamente le responsabilità, ma
soggetti adulti e vaccinati, si coniuga al presente il tempo della maturità
intellettuale, l’obbligo perentorio a essere responsabili, in grado di
ammettere pubblicamente gli errori ed in grado di sedersi poi (e con pari
dignità) al tavolo delle trattative insieme a coloro che chiedono a gran voce
il perché di certe scelte; in definitiva, urge la necessità di trovare
soluzioni coerenti e razionali per il “bene comune” che, in fin dei conti, è il
nostro e di tutti.
Detto
questo non prendiamoci in giro: la situazione attuale non ce lo consente e
dobbiamo affrontare con obbiettività e risolutezza certe verità storiche
scomode (e non certo belle) che da tempo non ci diciamo con sincerità. Facciamo
un esempio pratico; il sig. Rossi (una moglie e due figli) ha un reddito
mensile di € 1.200, ma un debito mensile di €550 che dovrà,
necessariamente, ripagare nei prossimi 20 anni: riuscirà mai il sig. Rossi a
ripagare, gradualmente il suo debito e contemporaneamente assicurare un minimo
accettabile di tenore di vita a sé e alla sua famiglia? La risposta è “sì” se i
sacrifici da affrontare sono veramente alti: alimentazione al minimo
indispensabile, qualche lusso forse (o neanche a parlarne!), spese sanitarie
ridotte all’essenziale oltre alla necessità (strenuamente occultata nel
quotidiano) di “arrampicarsi sugli specchi”, in modo da non far percepire la
severa condizione ai figli; questi, in ogni caso, non saranno in grado di
competere con i loro coetanei a causa delle diverse condizioni economiche. Il
sig. Rossi brucerà quindi i suoi prossimi 20 anni (sicuramente, i migliori
della sua vita) affrontando sacrifici, quelli stessi che hanno tanto rattristato
la ministra Fornero!
Traslando
il concetto, la nostra attuale situazione nazionale (nell’ambito europeo) non
dico sia quella del sig. Rossi, ma si equipara abbastanza: il nostro debito
pubblico è veramente notevole. Sin dall’ingresso nella comunità europea si
sapeva (ma è stato sottovalutato) che questo sarebbe stato un freno alla
equiparazione tra noi e il resto d’Europa; pur essendo un Paese fondatore
dovevamo realisticamente mantenere un atteggiamento decisamente attendista nei
confronti del nostro ingresso nella Comunità, visto che i nostri conti non
erano in regola (tanto meno quelli della Grecia che, a ogni modo, era di proporzioni
economicamente limitate rispetto a noi, e anche quelle di Portogallo e Spagna
in misura diversa – paesi PIGS dal “benevolo” acronimo creato per
contraddistinguerci!). Se avessimo assunto una posizione come quella attuata
dall’Inghilterra, forse potevamo (nel giro di qualche anno) procedere al
risanamento dei conti con l’ausilio della nostra Banca Centrale, magari
prefiggendoci il raggiungimento di una Lira Pesante (auspicata a suo tempo da certe
forze parlamentari) e proporci poi, al momento opportuno, alla Comunità Europea
con le carte in regola (o quasi) e, a ogni modo, non obbligati ad una lunga o
lunghissima situazione debitoria di risanamento, risultante difficile, onerosa,
piena di sacrifici e con l’aggravante di provocare essa stessa una prolungata
sudditanza contabile e psicologica.
Si
poteva, nel frattempo, usufruire di una condizione temporale che incoraggiasse
le esportazioni, in virtù di un tasso di cambio favorevole e negoziare, come l’Inghilterra,
una serie di rapporti commerciali agevolati che adesso (anno 2018/19) la stessa
Inghilterra dovrà dismettere rimborsando l’Europa a causa della Brexit. L’ideale
di un’Europa unita ha avuto il sopravvento e adesso non ci resta che far fronte
agli impegni volontariamente sottoscritti e che giustamente ci rimproverano di
non rispettare, anche se ci sarebbe da sottolineare un aspetto non secondario e
importante: quando si stringono dei rapporti che obbligano a mettere in comune
beni materiali, temi etici e valori democratici (condivisi, peraltro,
reciprocamente), il rinfacciarsi solo procedure contabili e atteggiamenti di
superiorità economica, non incarna pienamente sia le aspirazioni che gli ideali
di un’unica Casa Comune Europea.
Giovanni da Messina
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