STORIA
Le elezioni del 6 aprile 1924 a Messina e in Sicilia
di Giuseppe Pracanica
Il
25 gennaio 1924, Vittorio Emanuele III sciolse la Camera e convocò i comizi
elettorali per il successivo 6 aprile. Le elezioni si sarebbero tenute secondo
la disciplina introdotta dalla nuova legge elettorale maggioritaria, cosiddetta
“legge Acerbo”, che prevedeva la circoscrizione unica regionale, la
ripartizione nazionale dei seggi e un premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi
alla lista che avesse superato, sempre a livello nazionale, il 25% dei voti; il
restante terzo dei seggi sarebbe stato ripartito, proporzionalmente, fra tutte
le altre liste. Tale legge era stata valutata da una commissione presieduta
dall’on. Giolitti e approvata dalla Camera, nella quale la presenza fascista
era molto modesta, solo 35 deputati. Grandi manifestazioni di giubilo si ebbero
a Messina, il 16 marzo, per l’annessione di Fiume.
Infatti,
in seguito al trattato di Roma, stipulato il 27 gennaio 1924 da Benito
Mussolini con la Jugoslavia, era stata ratificata l’annessione di Fiume all’Italia.
Il governatore Giardino il 16 marzo, alla presenza del re Vittorio Emanuele
III, proclamò solennemente a una folla immensa lo storico avvenimento. Da
Fiume, lo stesso giorno, Vittorio Emanuele inviava a Mussolini un telegramma,
il cui contenuto, tra l’ossequioso e il servile, era il seguente: “…il mio pensiero ricorre all’alta opera da
Lei data in questo come in altri eventi che hanno migliorato le sorti dell’Italia
tra gli stati. Come segno della mia riconoscenza le conferisco l’Ordine supremo
dell’Annunziata. Affettuosi saluti. Aff.mo cugino Vittorio Emanuele”.
Mussolini, prontamente, rispondeva al “cugino” per ringraziarlo. Giovanni
Antonio Colonna di Cesarò, dopo essersi dimesso dalla carica di ministro delle
poste del governo Mussolini, presentò la lista Democrazia sociale,
particolarmente radicata in Sicilia, illudendosi di poter contrattare, dopo le
elezioni, con Mussolini, da posizioni di forza.
Nel
marzo del 1924, in un clima caratterizzato da continui e diffusi episodi di
violenza e di intimidazione a danno dei candidati dei partiti di opposizione,
anche Carlo Avarna di Gualtieri, candidato nella lista della Democrazia
sociale, venne aggredito nel suo comune dai fascisti locali e, seriamente,
ferito. Alle elezioni del 6 aprile 1924, il listone fascista conseguì, in
Sicilia, 481.811, pari ad oltre il 70% dei voti validi espressi, ottenendo 38
seggi. Democrazia Sociale, con 79.303 voti, si classificò al secondo posto,
ottenendo 7 seggi, con il miglior risultato elettorale in provincia di Messina,
dove conseguì 20.377 voti. Nelle 77 sezioni del Comune di Messina, la lista
Nazionale, che aveva come simbolo il Fascio Littorio, raccolse solo 8801 voti,
poco più del 40% dei consensi, mentre al secondo posto si classificarono, con
3.693 voti e il 17%, i demolaburisti di Ettore Lombardo Pellegrino. Ottimo anche
il risultato conseguito dalla lista Falce Martello e Spiga di Francesco Lo
Sardo, invece modesto, rispetto ai voti conseguiti complessivamente nella
provincia, fu il risultato conseguito dalla lista Democrazia Sociale del duca
Colonna di Cesarò, che aveva come simbolo la Fiaccola.
Insignificante,
infine, il consenso raccolto dal PPI: 479 voti. Il maggior numero di
preferenze, a Messina, le raccolse il notaio Bette, della lista Nazionale,
4176, seguito dal demolaburista Lombardo Pellegrino con 3117, da Michele
Crisafulli Mondio con 2641, sempre della lista Nazionale e da Francesco Lo
Sardo con 2060, mentre Giovanni Colonna di Cesarò si fermò a 1446 preferenze.
Nella circoscrizione della Sicilia, nella lista Nazionale, Gabriello Carnazza
fu gratificato da un eccezionale successo personale, raccogliendo ben 137.149
preferenze, seguito dal fratello Carlo con 59.573, mentre Vittorio Emanuele
Orlando si doveva accontentare soltanto del terzo posto. I messinesi eletti
furono Antonino di Giorgio, quattordicesimo con 22.893 preferenze, seguito da
Michele Crisafulli Mondio, diciottesimo con 18.444, Giuseppe Paratore,
ventiduesimo con 13.468, Giuseppe Gentile, ventisettesimo con 10.681 e Augusto
Bette, trentesimo con 6.888. Democrazia Sociale vide, naturalmente, al primo
posto Giovanni Colonna di Cesarò, con 24.141 preferenze, mentre Giuseppe
Faranda, con 7755 preferenze e Luigi Fulci, con 7329 preferenze, occupavano gli
ultimi due posti utili della lista, il sesto e il settimo.
Venivano,
inoltre, eletti Ettore Lombardo Pellegrino e Francesco Lo Sardo. Il successivo
5 maggio 1924, forte del successo elettorale ottenuto, sia in Sicilia che a
livello nazionale, Mussolini venne accolto a Palermo come un trionfatore e pur
rimanendo in Sicilia tre giorni, non mise piede a Messina, molto probabilmente
perché profondamente deluso dal risultato elettorale conseguito dalla Lista
Nazionale. Invece, significativamente, si fece trasportare in automobile da
Palermo a San Fratello, feudo elettorale del neodeputato fascista generale
Antonino Di Giorgio, che alcuni giorni prima aveva nominato ministro della
Guerra. Con queste elezioni, si apriva la strada che avrebbe portato, il 3
gennaio 1925, all’inizio della dittatura fascista, facendo uscire, per venti
anni, l’Italia dalla tradizione dell’Europa liberale.
Dopo
l’assassinio Matteotti, molti si illudevano che il re sarebbe intervenuto
decisamente, tra questi i dirigenti dell’Associazione “Combattenti” che, dopo
essersi riuniti ad Assisi per approvare un ordine del giorno, con cui, dopo
aver richiamato l’attenzione sulla gravità del momento, invitavano il sovrano
ad assumere le misure conseguenti, compresa la revoca dell’incarico a
Mussolini. I componenti del direttivo dell’Associazione, quasi tutti Medaglia d’oro,
si recarono a San Rossore, dove furono ricevuti dal re. Impettiti e sull’attenti
ascoltarono il presidente, l’on. Viola, che leggeva, notevolmente commosso ed
emozionato, l’ordine del giorno. Scrisse Lussu: “II momento è solenne. L’onorevole
Viola è convinto di rappresentare il popolo italiano e i sacrifici della
guerra. Ognuno pensa a questo momento
storico. Trattenuto il respiro, solo gli occhi rivelano la profonda commozione degli ambasciatori popolari”.
Nessuna
delegazione attese mai con maggior trepidazione il responso dell’oracolo. Il re
ascolta, pallido in volto, tutto il discorso poi dice col tetro sorriso di uno
spettro: “Mia figlia stamattina ha ucciso
due quaglie!”. La delegazione allibisce, uno si confonde e sudando freddo
risponde con lo stesso sorriso “a me
piacciono assai le quaglie fritte con i piselli”. Finiva cosi la “solenne
ambasceria” che il popolo italiano, attraverso i suoi eroi di guerra, aveva
mandato al sovrano. Il re, negli anni successivi, avrebbe approvato – e secondo
lo Statuto del Regno (art. 7 “II re solo sanziona le leggi e le promulga”) la
responsabilità era esclusivamente sua – tutte le leggi liberticide che gli
venivano sottoposte dal regime fascista. Pertanto, contribuì, con ruolo
determinante, a realizzare il programma fascista di togliere agli italiani la
libertà di stampa, di porre fuori legge i partiti e le organizzazioni delle
forze di opposizione, di dichiarare decaduti i deputati “aventiniani”, di
radiare dal servizio quei funzionari della pubblica amministrazione che non
davano “piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri”, cioè che non
obbedivano ciecamente alle disposizioni del regime fascista.
Con
altre leggi, sempre approvate ed emanate da Vittorio Emanuele, lo sciopero e
ogni forma di opposizione o di dissenso divennero reati; venne ripristinata la
pena di morte. Subito dopo le elezioni, il maresciallo Armando Diaz si dimise,
per motivi di salute, da Ministro della Guerra, e Mussolini chiamò a
sostituirlo, il 30 aprile 1924, il gen. Antonino Di Giorgio. Nell’ottobre del
1924, il gen. Di Giorgio riuscì a far riabilitare il generale Luigi Cadorna e a
farlo nominare Maresciallo d’Italia. Il due aprile 1925, Di Giorgio presentava,
al Senato, la sua riforma delle forze armate. Si trattava di un progetto
rivoluzionario, nelle sue linee fondamentali, in quanto attuava il concetto
dello “scudo e della lancia”: piccolo esercito, potentemente armato e sempre
pronto alla difesa, ed eventualmente, anche all’offesa, ma che, comunque,
urtava contro le tradizioni e la mentalità dei vecchi generali che erano ben
rappresentati in Senato.
Infatti,
iniziatasi la discussione, le critiche piovvero da vari banchi e Mussolini ebbe
la sensazione, probabilmente errata, che il Senato avrebbe bocciato il nuovo
ordinamento che veniva proposto. Non volendosi esporre a uno scacco, per quanto
avesse pienamente e dettagliatamente approvato il progetto stesso prima che
fosse portato in discussione al Senato, invece di appoggiare il suo ministro
sia con argomentazioni sia, soprattutto, colla sua indiscussa autorità, lo
buttò a mare tranquillamente dichiarando che era prontissimo, tenuto conto del
giudizio sfavorevole espresso da alcuni generali senatori che avevano preso la
parola, a ritirare il progetto. Risolse sbrigativamente la pratica, tanto che,
già il quattro aprile, scriveva a Di Giorgio che Sua Maestà al quale ho
comunicato le sue dimissioni le ha accettate e io ho assunto l’interim della
Guerra. Credo che sia – per il momento – la soluzione migliore.
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