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 venerdì 5 gennaio 2018

STORIA

Le elezioni del 6 aprile 1924 a Messina e in Sicilia

di Giuseppe Pracanica


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Il 25 gennaio 1924, Vittorio Emanuele III sciolse la Camera e convocò i comizi elettorali per il successivo 6 aprile. Le elezioni si sarebbero tenute secondo la disciplina introdotta dalla nuova legge elettorale maggioritaria, cosiddetta “legge Acerbo”, che prevedeva la circoscrizione unica regionale, la ripartizione nazionale dei seggi e un premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi alla lista che avesse superato, sempre a livello nazionale, il 25% dei voti; il restante terzo dei seggi sarebbe stato ripartito, proporzionalmente, fra tutte le altre liste. Tale legge era stata valutata da una commissione presieduta dall’on. Giolitti e approvata dalla Camera, nella quale la presenza fascista era molto modesta, solo 35 deputati. Grandi manifestazioni di giubilo si ebbero a Messina, il 16 marzo, per l’annessione di Fiume.

Infatti, in seguito al trattato di Roma, stipulato il 27 gennaio 1924 da Benito Mussolini con la Jugoslavia, era stata ratificata l’annessione di Fiume all’Italia. Il governatore Giardino il 16 marzo, alla presenza del re Vittorio Emanuele III, proclamò solennemente a una folla immensa lo storico avvenimento. Da Fiume, lo stesso giorno, Vittorio Emanuele inviava a Mussolini un telegramma, il cui contenuto, tra l’ossequioso e il servile, era il seguente: “…il mio pensiero ricorre all’alta opera da Lei data in questo come in altri eventi che hanno migliorato le sorti dell’Italia tra gli stati. Come segno della mia riconoscenza le conferisco l’Ordine supremo dell’Annunziata. Affettuosi saluti. Aff.mo cugino Vittorio Emanuele”. Mussolini, prontamente, rispondeva al “cugino” per ringraziarlo. Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, dopo essersi dimesso dalla carica di ministro delle poste del governo Mussolini, presentò la lista Democrazia sociale, particolarmente radicata in Sicilia, illudendosi di poter contrattare, dopo le elezioni, con Mussolini, da posizioni di forza.

Nel marzo del 1924, in un clima caratterizzato da continui e diffusi episodi di violenza e di intimidazione a danno dei candidati dei partiti di opposizione, anche Carlo Avarna di Gualtieri, candidato nella lista della Democrazia sociale, venne aggredito nel suo comune dai fascisti locali e, seriamente, ferito. Alle elezioni del 6 aprile 1924, il listone fascista conseguì, in Sicilia, 481.811, pari ad oltre il 70% dei voti validi espressi, ottenendo 38 seggi. Democrazia Sociale, con 79.303 voti, si classificò al secondo posto, ottenendo 7 seggi, con il miglior risultato elettorale in provincia di Messina, dove conseguì 20.377 voti. Nelle 77 sezioni del Comune di Messina, la lista Nazionale, che aveva come simbolo il Fascio Littorio, raccolse solo 8801 voti, poco più del 40% dei consensi, mentre al secondo posto si classificarono, con 3.693 voti e il 17%, i demolaburisti di Ettore Lombardo Pellegrino. Ottimo anche il risultato conseguito dalla lista Falce Martello e Spiga di Francesco Lo Sardo, invece modesto, rispetto ai voti conseguiti complessivamente nella provincia, fu il risultato conseguito dalla lista Democrazia Sociale del duca Colonna di Cesarò, che aveva come simbolo la Fiaccola.

Insignificante, infine, il consenso raccolto dal PPI: 479 voti. Il maggior numero di preferenze, a Messina, le raccolse il notaio Bette, della lista Nazionale, 4176, seguito dal demolaburista Lombardo Pellegrino con 3117, da Michele Crisafulli Mondio con 2641, sempre della lista Nazionale e da Francesco Lo Sardo con 2060, mentre Giovanni Colonna di Cesarò si fermò a 1446 preferenze. Nella circoscrizione della Sicilia, nella lista Nazionale, Gabriello Carnazza fu gratificato da un eccezionale successo personale, raccogliendo ben 137.149 preferenze, seguito dal fratello Carlo con 59.573, mentre Vittorio Emanuele Orlando si doveva accontentare soltanto del terzo posto. I messinesi eletti furono Antonino di Giorgio, quattordicesimo con 22.893 preferenze, seguito da Michele Crisafulli Mondio, diciottesimo con 18.444, Giuseppe Paratore, ventiduesimo con 13.468, Giuseppe Gentile, ventisettesimo con 10.681 e Augusto Bette, trentesimo con 6.888. Democrazia Sociale vide, naturalmente, al primo posto Giovanni Colonna di Cesarò, con 24.141 preferenze, mentre Giuseppe Faranda, con 7755 preferenze e Luigi Fulci, con 7329 preferenze, occupavano gli ultimi due posti utili della lista, il sesto e il settimo.

Venivano, inoltre, eletti Ettore Lombardo Pellegrino e Francesco Lo Sardo. Il successivo 5 maggio 1924, forte del successo elettorale ottenuto, sia in Sicilia che a livello nazionale, Mussolini venne accolto a Palermo come un trionfatore e pur rimanendo in Sicilia tre giorni, non mise piede a Messina, molto probabilmente perché profondamente deluso dal risultato elettorale conseguito dalla Lista Nazionale. Invece, significativamente, si fece trasportare in automobile da Palermo a San Fratello, feudo elettorale del neodeputato fascista generale Antonino Di Giorgio, che alcuni giorni prima aveva nominato ministro della Guerra. Con queste elezioni, si apriva la strada che avrebbe portato, il 3 gennaio 1925, all’inizio della dittatura fascista, facendo uscire, per venti anni, l’Italia dalla tradizione dell’Europa liberale.

Dopo l’assassinio Matteotti, molti si illudevano che il re sarebbe intervenuto decisamente, tra questi i dirigenti dell’Associazione “Combattenti” che, dopo essersi riuniti ad Assisi per approvare un ordine del giorno, con cui, dopo aver richiamato l’attenzione sulla gravità del momento, invitavano il sovrano ad assumere le misure conseguenti, compresa la revoca dell’incarico a Mussolini. I componenti del direttivo dell’Associazione, quasi tutti Medaglia d’oro, si recarono a San Rossore, dove furono ricevuti dal re. Impettiti e sull’attenti ascoltarono il presidente, l’on. Viola, che leggeva, notevolmente commosso ed emozionato, l’ordine del giorno. Scrisse Lussu: “II momento è solenne. L’onorevole Viola è convinto di rappresentare il popolo italiano e i sacrifici della guerra. Ognuno pensa a questo momento storico. Trattenuto il respiro, solo gli occhi rivelano la profonda commozione degli ambasciatori popolari”.

Nessuna delegazione attese mai con maggior trepidazione il responso dell’oracolo. Il re ascolta, pallido in volto, tutto il discorso poi dice col tetro sorriso di uno spettro:Mia figlia stamattina ha ucciso due quaglie!”. La delegazione allibisce, uno si confonde e sudando freddo risponde con lo stesso sorriso “a me piacciono assai le quaglie fritte con i piselli”. Finiva cosi la “solenne ambasceria” che il popolo italiano, attraverso i suoi eroi di guerra, aveva mandato al sovrano. Il re, negli anni successivi, avrebbe approvato – e secondo lo Statuto del Regno (art. 7 “II re solo sanziona le leggi e le promulga”) la responsabilità era esclusivamente sua – tutte le leggi liberticide che gli venivano sottoposte dal regime fascista. Pertanto, contribuì, con ruolo determinante, a realizzare il programma fascista di togliere agli italiani la libertà di stampa, di porre fuori legge i partiti e le organizzazioni delle forze di opposizione, di dichiarare decaduti i deputati “aventiniani”, di radiare dal servizio quei funzionari della pubblica amministrazione che non davano “piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri”, cioè che non obbedivano ciecamente alle disposizioni del regime fascista.

Con altre leggi, sempre approvate ed emanate da Vittorio Emanuele, lo sciopero e ogni forma di opposizione o di dissenso divennero reati; venne ripristinata la pena di morte. Subito dopo le elezioni, il maresciallo Armando Diaz si dimise, per motivi di salute, da Ministro della Guerra, e Mussolini chiamò a sostituirlo, il 30 aprile 1924, il gen. Antonino Di Giorgio. Nell’ottobre del 1924, il gen. Di Giorgio riuscì a far riabilitare il generale Luigi Cadorna e a farlo nominare Maresciallo d’Italia. Il due aprile 1925, Di Giorgio presentava, al Senato, la sua riforma delle forze armate. Si trattava di un progetto rivoluzionario, nelle sue linee fondamentali, in quanto attuava il concetto dello “scudo e della lancia”: piccolo esercito, potentemente armato e sempre pronto alla difesa, ed eventualmente, anche all’offesa, ma che, comunque, urtava contro le tradizioni e la mentalità dei vecchi generali che erano ben rappresentati in Senato.

Infatti, iniziatasi la discussione, le critiche piovvero da vari banchi e Mussolini ebbe la sensazione, probabilmente errata, che il Senato avrebbe bocciato il nuovo ordinamento che veniva proposto. Non volendosi esporre a uno scacco, per quanto avesse pienamente e dettagliatamente approvato il progetto stesso prima che fosse portato in discussione al Senato, invece di appoggiare il suo ministro sia con argomentazioni sia, soprattutto, colla sua indiscussa autorità, lo buttò a mare tranquillamente dichiarando che era prontissimo, tenuto conto del giudizio sfavorevole espresso da alcuni generali senatori che avevano preso la parola, a ritirare il progetto. Risolse sbrigativamente la pratica, tanto che, già il quattro aprile, scriveva a Di Giorgio che Sua Maestà al quale ho comunicato le sue dimissioni le ha accettate e io ho assunto l’interim della Guerra. Credo che sia – per il momento – la soluzione migliore.


 


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