FIRENZE
L’ora di ricevimento: la solitudine del docente al tempo della globalizzazione
di Tiziana Santoro
Attualmente,
in scena presso il Teatro della Pergola di Firenze e, prossimamente, nei
maggiori teatri d’Italia, trionfa Fabrizio Bentivoglio, interprete di “L’ora di
ricevimento”, scritto da Stefano Massini e diretto da Michele Placido. L’attore,
nei panni del professore di letteratura Ardeche, si deve confrontare con le
problematiche della periferia multietnica di Tolosa e misurarsi con le esigenze
crescenti e specifiche delle famiglie dei suoi alunni. Sotto la luce dei
riflettori è la cattedra del docente, la sua funzione di educatore, il suo
ruolo nella società, il codice di comunicazione e la funzione della letteratura
ai tempi della globalizzazione.Bentivoglio
esordisce con un monologo di 25 minuti in cui, nel vano tentativo di garantire
un percorso di crescita ai propri alunni, prova empaticamente a coglierne le
peculiarità e ad organizzarli in tipologie: primobanco beffato dalla società,
fuggipresto pronto a dileguarsi immediatamente al suono della campana, panorama
proiettato verso l’interno e disinteressato alla lezione, raffreddore
perennemente debilitato e affaticato, rassegnato chiuso in se stesso,
invisibile ignorato da tutti, la campionessa sempre sull’onda del successo, la
missionaria pronta a sacrificarsi per il bene di tutti, l’adulto a cui è stata
negata l’opportunità di vivere la propria infanzia, il cartoon perennemente
inadeguato al contesto, il boss e il bodyguard bulli di classe. Il professore
Ardeche prova a tenerli in pugno, la sua missione è non perderne nemmeno uno.
Sono loro i protagonisti e al tempo stesso i grandi assenti dal palcoscenico e
dalla cittadinanza attiva: quegli alunni, figli della globalizzazione, che le
istituzioni a fatica provano a educare e a coinvolgere in un progetto di
crescita collettivo. Poi, ci sono i genitori: ciascuno chiuso entro il proprio
particolarismo etnico, sociale e religioso. Diventano per il professore Ardeche
“il cliente da accontentare”. Per il docente l’impresa diventa ardua, gli
aspetti educativi secondari e superflui. L’arte, la poesia, l’insegnamento non
interessano a nessuno, ciascuno è trincerato nella propria roccaforte e nella
difesa delle propria particolare identità. Il sapere e la cultura non assolvo
più alla loro missione: non trasmettono la bellezza, non sensibilizzano gli
animi, non migliorano la società. Il sapere e la tradizione letteraria
diventano un codice inaccessibile agli studenti. Alle nuove generazioni, non
mancano i mezzi per comunicare, manca però il codice, il logos che nella
continuità storica ha distinto l’uomo dalla bestia. Il docente non può
insegnare, deve piuttosto “aggiustare”, “mettere la pezza”, “evitare i disastri”,
“far quadrare i bilanci”, “sopravvivere”. Ardeche deve riscuotere i soldi per
far riparare il vetro infranto dal gesto sconsiderato di un alunno, concordare
il menù multietnico per la gita, giustificare le sue scelte didattiche e i temi
dell’insegnamento, evitare che i voti attribuiti durante le verifiche,
interferiscano con le aspettative dei genitori. Ogni giorno, si ripete sempre uguale
da trent’anni e, con lucida consapevolezza, Ardeche ammette: “La verità è che alla fine io perdo”. Il
ruolo del docente si è esaurito, la letteratura e la bellezza non salveranno il
mondo. Così, i riflettori si spengono sulla “saggezza indiana e indiana
rassegnazione” di un uomo che è stato lasciato da solo e senza mezzi a
combattere contro l’imbruttimento delle coscienze e della società.
Con
l’ora di ricevimento, i riflettori mettono in luce la crisi dei valori
tradizionali, ma anche l’indifferenza delle famiglie e della società verso
generazioni di giovani che diventano sempre più evanescenti, invisibili,
inadeguati a fornire delle proposte utili alla cittadinanza. È nel confronto
tra Ardeche e l’alunno invisibile che si consuma la vera tragedia, quella dei
giovani senza risorse, che non sanno trasformare la loro rabbia personale in
benzina per costruirsi un futuro e fornire risposte utili alle problematiche
dei nostri tempi. Rimane solo la vendetta da consumarsi proprio verso quel professore
che – lasciato da solo, con la propria tradizione e i propri pochi mezzi – non
ha potuto dissipare paure, realizzare desideri e contrastare l’esclusione
sociale. Soluzioni? Nessuna soluzione, sulla solitudine del docente cinico,
disincantato e sofferente si spengono le luci e si chiude il sipario. Che la
riflessione abbia inizio, dunque, a luci accese e lontano dalla scena.
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