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 giovedì 14 dicembre 2017

FIRENZE

L’ora di ricevimento: la solitudine del docente al tempo della globalizzazione

di Tiziana Santoro


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Attualmente, in scena presso il Teatro della Pergola di Firenze e, prossimamente, nei maggiori teatri d’Italia, trionfa Fabrizio Bentivoglio, interprete di “L’ora di ricevimento”, scritto da Stefano Massini e diretto da Michele Placido. L’attore, nei panni del professore di letteratura Ardeche, si deve confrontare con le problematiche della periferia multietnica di Tolosa e misurarsi con le esigenze crescenti e specifiche delle famiglie dei suoi alunni. Sotto la luce dei riflettori è la cattedra del docente, la sua funzione di educatore, il suo ruolo nella società, il codice di comunicazione e la funzione della letteratura ai tempi della globalizzazione.Bentivoglio esordisce con un monologo di 25 minuti in cui, nel vano tentativo di garantire un percorso di crescita ai propri alunni, prova empaticamente a coglierne le peculiarità e ad organizzarli in tipologie: primobanco beffato dalla società, fuggipresto pronto a dileguarsi immediatamente al suono della campana, panorama proiettato verso l’interno e disinteressato alla lezione, raffreddore perennemente debilitato e affaticato, rassegnato chiuso in se stesso, invisibile ignorato da tutti, la campionessa sempre sull’onda del successo, la missionaria pronta a sacrificarsi per il bene di tutti, l’adulto a cui è stata negata l’opportunità di vivere la propria infanzia, il cartoon perennemente inadeguato al contesto, il boss e il bodyguard bulli di classe.

Il professore Ardeche prova a tenerli in pugno, la sua missione è non perderne nemmeno uno. Sono loro i protagonisti e al tempo stesso i grandi assenti dal palcoscenico e dalla cittadinanza attiva: quegli alunni, figli della globalizzazione, che le istituzioni a fatica provano a educare e a coinvolgere in un progetto di crescita collettivo. Poi, ci sono i genitori: ciascuno chiuso entro il proprio particolarismo etnico, sociale e religioso. Diventano per il professore Ardeche “il cliente da accontentare”. Per il docente l’impresa diventa ardua, gli aspetti educativi secondari e superflui. L’arte, la poesia, l’insegnamento non interessano a nessuno, ciascuno è trincerato nella propria roccaforte e nella difesa delle propria particolare identità. Il sapere e la cultura non assolvo più alla loro missione: non trasmettono la bellezza, non sensibilizzano gli animi, non migliorano la società.

Il sapere e la tradizione letteraria diventano un codice inaccessibile agli studenti. Alle nuove generazioni, non mancano i mezzi per comunicare, manca però il codice, il logos che nella continuità storica ha distinto l’uomo dalla bestia. Il docente non può insegnare, deve piuttosto “aggiustare”, “mettere la pezza”, “evitare i disastri”, “far quadrare i bilanci”, “sopravvivere”. Ardeche deve riscuotere i soldi per far riparare il vetro infranto dal gesto sconsiderato di un alunno, concordare il menù multietnico per la gita, giustificare le sue scelte didattiche e i temi dell’insegnamento, evitare che i voti attribuiti durante le verifiche, interferiscano con le aspettative dei genitori. Ogni giorno, si ripete sempre uguale da trent’anni e, con lucida consapevolezza, Ardeche ammette: “La verità è che alla fine io perdo”. Il ruolo del docente si è esaurito, la letteratura e la bellezza non salveranno il mondo. Così, i riflettori si spengono sulla “saggezza indiana e indiana rassegnazione” di un uomo che è stato lasciato da solo e senza mezzi a combattere contro l’imbruttimento delle coscienze e della società.

Con l’ora di ricevimento, i riflettori mettono in luce la crisi dei valori tradizionali, ma anche l’indifferenza delle famiglie e della società verso generazioni di giovani che diventano sempre più evanescenti, invisibili, inadeguati a fornire delle proposte utili alla cittadinanza. È nel confronto tra Ardeche e l’alunno invisibile che si consuma la vera tragedia, quella dei giovani senza risorse, che non sanno trasformare la loro rabbia personale in benzina per costruirsi un futuro e fornire risposte utili alle problematiche dei nostri tempi. Rimane solo la vendetta da consumarsi proprio verso quel professore che – lasciato da solo, con la propria tradizione e i propri pochi mezzi – non ha potuto dissipare paure, realizzare desideri e contrastare l’esclusione sociale. Soluzioni? Nessuna soluzione, sulla solitudine del docente cinico, disincantato e sofferente si spengono le luci e si chiude il sipario. Che la riflessione abbia inizio, dunque, a luci accese e lontano dalla scena.


 


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