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 mercoledì 13 settembre 2017

RECENSIONE

Evoluzione di un inetto: da Svevo a De Silva

di Tiziana Santoro


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Vincenzo Malinconico è il protagonista di “Sono contrario alle emozioni”, scritto da Diego De Silva. Il personaggio chiave è un avvocato perennemente sull’orlo di una crisi di nervi. Addentrandomi fin nel cuore del romanzo, direzionavo il focus della mia indagine verso altri due autori: Italo Svevo e Nicola Ghezzani. La premessa scaturisce dal tentativo di individuare elementi di continuità e rottura col “personaggio-inetto”, che ha condizionato la letteratura del primo ‘900 e animato i dibattiti sulla “crisi dell’uomo contemporaneo”.

Alfonso Nitti e Emilio Brentani, protagonisti rispettivamente di “Una vita” e “Senilità” di Italo Svevo, erano uomini privi di qualità e in balia degli eventi del loro tempo: imbrigliati nelle convenzioni dettate dalla struttura sociale, peccavano d’immobilismo e accidia, cedevano inconsapevolmente alla loro inettitudine. Il più evoluto Zeno Cosini era, invece, “un inetto consapevole”, che raccontava al suo psicologo fatti trasfigurati, nel goffo tentativo di “mistificare la propria coscienza”. L’intuizione critica di Giorgio Luti coglie in Zeno “l’inquietudine dell’uomo moderno, la solitudine del borghese”. Certamente, i condizionamenti storici, politici ed economici scaturiti dalla grande guerra erano uno sfondo non trascurabile, ma Svevo aveva regalato ai lettori un personaggio che fungeva da “documento di malattia universale”. Per la prima volta, era messo in discussione il “valore morale dell’individuo”.

Se i protagonisti dei romanzi di Svevo erano perfettamente inseriti in un quadro storico, invece, Vincenzo Malinconico si trova a vivere il suo tempo suo malgrado, vi oppone resistenza e si rifugia in una “bolla sonora”. Quella di Vincenzo è una “depressione manierata”, egli è “insofferente verso il genere umano”. Il suo lettore Mp3 e le canzoni che ascolta, sono uno schermo protettivo attraverso cui “disertare dalla razza umana”. L’unica stimolazione emotiva che si concedeva, era quella a cui attingeva per via artistica. Nei personaggi di Svevo, contrapposti in “lottatori e contemplatori” (come Schopenhauer insegna) è possibile scorgere un tiepido barlume: “uno sforzo di vivere”. In Vincenzo, c’è, invece, il presupposto “che gli altri siano stronzi”, quindi, l’unica lotta possibile è quella contro le proprie emozioni. Il rifiuto di vivere le emozioni coincide col “rifiuto preventivo di soccombere alla prepotenza degli altri”. Come Zeno, Vincenzo tenta la strada della psicanalisi, lo fa, però, con scarsa convinzione, mosso più dal desiderio di dimostrare a se stesso che i sentimenti sono sopravvalutati, che dalla volontà di guarire.

Benché fugga nella sua bolla, Vincenzo presenta le idiosincrasie del secolo contemporaneo, non faccio fatica a collocarlo in quella che Z. Bauman e C. Losch hanno dipinto, rispettivamente, come la “società liquida” e “del narcisismo”. A questo punto, mi addentro nello studio del personaggio attingendo agli studi di Nicola Ghezzani. Lo psicoterapeuta romano parte dall’osservazione dei fenomeni sociali su larga scala: disgregazione delle famiglie, conflittualità e scarsa cultura dei sentimenti, poi individua due profili patologici prevalenti. Tra questi è quello affetto da “anoressia sentimentale”: apatico, chiuso nel suo isolamento affettivo ed emotivo, straniato dal mondo. Vincenzo più che un inetto è, dunque, “un contemporaneo anoressico-sentimentale”: si nutre del proprio individualismo, tende alla solitudine e al consumismo sentimentale, si atteggia ad “egocentrico manipolatore” della realtà. Tuttavia, la difesa a oltranza della sua libertà lo condanna a coesistere con un vuoto interiore, che è sempre preludio a nuove conquiste. Quest’ultimo, è il goffo tentativo di evolversi nella direzione del “narcisista compiaciuto”, tipologia a cui non approda mai pienamente, perché contrastato dalla personalità dirompente dei personaggi femminili in cui si imbatte: Gigliola, Viola e Rebecca.

Gigliola è la misteriosa donna incontrata all’aeroporto: una proiezione immaginaria, una fascinazione folgorante, quella che desidera solo perché lo abbandona dopo tre giorni. A questo punto, l’ossessione per Gigliola – eroina antiromantica e in cerca di un uomo affidabile per sé e suo figlio – lascia il posto alla ricerca incessante, da parte di Vincenzo, della ragione per cui non è stato lui il prescelto. Più di tutte irrompe nella narrazione Viola, donna dotata di “praticità sentimentale”: ha un amante, un promesso sposo e decide senza sensi di colpa come indirizzare la sua vita. Più che un amore, quello tra Vincenzo e Viola è “un ricovero”, per Vincenzo un “furto di normalità”. A chiarire la natura della loro relazione è la stessa Viola, che in modo “lucido” pronuncia parole che accrescono la “sindrome dell’abbandono” di Vincenzo: “Io Giulio lo amo sul serio (…), ma so benissimo che tra tre o quattro anni ci saremo rotti di averci tra i piedi e faremo un figlio prima di dichiarare fallimento.

È l’accordo che tiene insieme le coppie da che mondo e mondo, e funziona perché non ci si dice come stanno le cose. Con te questo accordo non posso farlo (….). Ci siamo detti la verità, io e te. Ecco perché siamo ancora qui, possiamo parlarci e fare anche altro. Ma siamo soli.” In ultimo, c’è Rebecca: la donna che non risponde nemmeno nei sogni, quella che se n’è andata, quella di cui Vincenzo non parla nemmeno in analisi, salvo poi piagnucolare con Viola, dolendosi della sua mancanza.

Sino alla pagina conclusiva del romanzo, Vincenzo difende la sua anaffettività. Se Zeno Cosini mentiva a se stesso per ingannarsi, Vincenzo mente a se stesso per crederci. Le sue idee non erano coerenti, eppure stavano in piedi. Talmente tanto bene, che alla fine persino lo psicologo lo ha congedato restituendogli le ottanta euro dell’ultima fallimentare seduta. Mr. Wolf chiarisce che il paziente ha uno scompenso tra sfera razionale ed emotiva. La prima governa, tuttavia, non controlla la seconda. Se Vincenzo vuole guarire deve “imparare ad attraversare la strada” a non farsi “investire dalle emozioni”.

La conclusione del romanzo è inaspettata e si risolve con una “metafora cartacea”: l’attenzione di Vincenzo è attirata dalla sovrapposizione di alcune locandine sulla facciata di un vecchio cinema. In questa immagine, “il vecchio si confonde col nuovo”, come nella memoria affettiva si sovrappongono “integrità e amputazione”, “pezzi sani e pezzi irrecuperabili”. A questo punto, Vincenzo decide di guarire, il personaggio si evolve, riscatta se stesso. Il romanzo si conclude con una manifestazione di volontà da parte del protagonista: Vincenzo chiama Mr. Wolf, capisce che i “detriti del passato sono ancora lì”, cambia atteggiamento, si affida: esce dalla bolla, chiede aiuto e prova a salvare se stesso.


 


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