RECENSIONE
“Dal proprio nido alla Vita” di Fabio Strinati
di Redazione
“Vorrei girare il mondo come le rondini…”
cantava il grande Lucio Dalla tanti anni fa: Fabio Strinati sembra fargli eco
con l’incipit del suo poemetto “Dal proprio nido alla vita” (edito da
EIF, nel 2016) che torna, spesso, come un refrain “Ho sempre desiderato essere una rondine”; ma scopriamo subito che
il riferimento non è lo scomparso cantautore bolognese, bensì lo scrittore
toscano Gordiano Lupi e, più precisamente, il suo recente libro “Miracolo a Piombino”,
a cui Strinati rende omaggio all’inizio della sua opera.
Il
linguaggio semplice con cui è scritto il poemetto
non tragga in inganno: si tratta di un testo profondo, filosofico, complesso,
estremamente poetico e tutt’altro che leggero. Il tono, talvolta crepuscolare,
con cui il poeta dichiara la propria fragilità e inquietudine fa da contraltare
alla voglia di infinito e di vita racchiusa nel desiderio di volare (“Volare è un po’ come sognare, / e sognare è
un po’ come volare!”). Il poemetto,
in effetti, è la descrizione di un viaggio simbolico e onirico nell’essere;
anche il Monte Corsegno (un luogo reale, nelle Marche: “una di quelle montagne / che ti prendono l’anima”) da cui l’io
poetante osserva il cielo in una giornata di vento e gelo (condizioni
climatiche fortemente simboliche) rimanda ad altro, a qualcosa di trascendente
e atemporale; uno spazio in cui l’autore tenta una definizione della morte (“Orrenda è la morte, / che all’improvviso
arriva, con aria buffa / di chi si prende gioco della vita, di chi la disprezza”)
e della vita (“la vita è vita, anche
quando la morte se ne impossessa”).
Ma
perché, dunque, il poeta vorrebbe essere una rondine? Perché suo desiderio è
diventare “una di quelle rondini che
sanno affrontare la vita”, in quanto “tutto
ciò che conta, è la vita” e lui, col suo senso di smarrimento e di
inettitudine (“Io ero un’anima debole, un
nido di paglia e di cereali”) si sente incapace di afferrarla, di viverne
appieno il senso profondo. Lui, uomo qualunque, anonimo (“Ero quel tipo di persona…che nessuno si sarebbe / mai voltato a
guardare!”), vive un “periodo strano” in cui ha perso la propria identità.
Un uomo smarrito, come Dante nella selva oscura, profondamente solo, preda del
ricordo (“‘È impossibile non ricordare’
quando si è soli”) di cui dà una definizione tutt’altro che rassicurante (“i ricordi sono ficcanti e dolorosi; sono
come chiodi precisi / che ti entrano dentro la carne, come cavatappi nel cuore”),
che rifiuta il suo ruolo di poeta (“Come
vorrei certe volte, non potermi sentire poeta, / per essere un po’ più giovane
e meno adulto…”) e che, insomma, anela ad uscire al sole, fuori dall’oscurità
dell’anima.
La
salvezza è nel sapersi guardare dentro (“Un
uomo, deve essere uomo per poter vedere dentro di sè.”) e nel ritrovare il
proprio “nido”, il quale, non necessariamente, coincide col posto dove viviamo,
la nostra casa. Il luogo tanto ricercato pare, quindi, essere dentro il nostro
cuore, in questo assolato paesaggio interiore che ci fa veramente esseri umani
e che rende sicure e preziose le nostre parole. Solo così la vecchiaia potrà
dirsi “saggia” e potremo volare come rondini libere nel cielo terso dell’anima.
Massimo Acciai Baggiani
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