MESSINA
Omelia del Nunzio apostolico Santo Rocco Gangemi
di Redazione
 Vogliamo proporre ai
nostri lettori un estratto dell’omelia pronunciata il giovedì Santo (23/04)
nella Basilica cattedrale di Messina, durante la S. Messa in Coena Domini, dal
Nunzio apostolico Santo Rocco Gangemi, che presiedeva la celebrazione. Abbiamo
dovuto ridurre il testo per esigenze redazionali, ma abbiamo lasciato intatto
lo schema concettuale del discorso, i suoi contenuti, le parole esatte: con
ciò, vorremmo tentar di render ‘memorabile’ un’omelia densa di spiritualità e
di carità per il ‘gregge’, di dottrina teologica e, ancora, di sapere storico e
letterario. Un’omelia dal fascino speciale insomma, tanto più che ha
costantemente serbato i toni mesti adatti alla circostanza. Inoltre – ecco
un’altra ragione per dedicavi una pagina - essa dà la netta impressione di
celare un senso supplementare, quasi di ‘omaggio’ alla nostra città, della
quale anche Mons. Gangemi è figlio, e che, per quanto lontano viva, porta
sempre nel cuore, con le sue devozioni, la sua storia, i suoi usi.
Il
giorno santissimo
«Entriamo quasi in punta
di piedi nel cuore della liturgia del giovedì santo, che attraverso i suoi
testi eucologici [N. d. R. “di preghiera” dal Greco euchomai] e scritturistici
ci offre molti spunti di preghiera e di meditazione. In questo giorno sentiamo
qualcosa di speciale nella celebrazione dell'Eucaristia, anche se il rito è lo
stesso, con eccezione di due elementi: la lavanda dei piedi e la reposizione
del Ss.mo Sacramento alla fine della Messa».
«Nulla ci deve distrarre;
anche il gesto di spogliare gli altari e lì, dove ancora si continua a fare, di
coprire le immagini, ha questa motivazione: attirare l'attenzione verso Colui
che è realmente presente in mezzo a noi con il suo corpo, il suo sangue, la sua
anima e la sua divinità. Un unico movimento è permesso: piegare le ginocchia e
silenziosamente adorare»!
Il
pane di vita
«Tutta la liturgia di
oggi ci parla del pane, ci parla del dono, ci parla dell'eucarestia, anche
attraverso azioni a volte dimenticati, ma densi di significato e, soprattutto,
di fede. In alcune parrocchie della nostra diocesi, retaggio della loro
appartenenza al rito greco, si aggiungeva fino ad alcuni decenni addietro un
gesto di una grande portata significativa, mi riferisco alla distribuzione del
'pane della cena', che veniva definito 'benedetto'. Un atto
che era atteso da tutti; da chi partecipava e veniva in chiesa, e da chi.... attendeva
a casa che 'gli apostoli' gli portassero quel dono ... Quel pane
riporta con la mente all'Antidoron [N. d. A., “al posto del dono”, detto anche
Eulogion, “benedizione”], pane benedetto, distribuito a coloro che non potevano
accostarsi alla comunione».
«Esso veniva e viene dato
non come sacramento, ma come fede in quel sacramento che per indisposizione
spirituale non si poteva ricevere, memori del monito paolino: '…chiunque
in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo
e del sangue del Signore...mangia e beve la propria condanna!' (Cor. 11,
27, 28)».
«Non c'era alcuna
preghiera di benedizione per l'Antidoron, era il passaggio del più Santo tra i
pani che rendeva santo il pane della consolazione». Esso «raggiunge i presenti
vicini e i lontani, che, anche se assenti, con devozione lo ricevevano, lo
baciavano, lo consumavano insieme a tutti i membri della famiglia e, in qualche
caso, insieme a tutti gli esseri viventi che facevano parte dell'economia
domestica, avevano cura, però, di conservarne un pezzetto da usare in caso di
malattia».
«In questi gesti,
probabilmente, erano mescolate insieme fede e pietà popolare, forse in qualche
caso anche superstizione, in un intreccio difficile da dipanare, ma non
possiamo negare che in quelle azioni semplici si manifestava un aspetto della
vita fondamentale, che è la porta alla grazia e quindi alla salvezza: la
religiosità».
E qui, un monito: non, in
sé, il cibo consacrato, bensì la purezza di cuore e la fede con le quali lo si
assume recano lo stato di grazia: «Gesù, dopo il segno della moltiplicazione
dei pani, aveva affermato che esisteva una intrinseca differenza tra la manna
mangiata nel deserto e il nuovo cibo dato da lui, di cui il pane della
moltiplicazione era solo un segno e non una realtà: '...non Mosè vi ha
dato il pane del cielo, ma il Padre mio vi dà il pane del cielo, quello vero;
il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo' e
alla richiesta di quel cibo Gesù risponde: 'Io sono il pane della vita;
chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete' (Gv.
6, 32-33, 35).
L’Agnello
Ecco che l’annuncio di
Gesù profetizza «quanto si sarebbe pienamente realizzato solo 'nella notte
in cui veniva tradito'», e fino a quel tragico momento non veramente
compreso dai discepoli, e tanto più che anche l’Antico Testamento lo vaticina
tramite prefigurazione. Così, nel passo della Ia Lettura (Es. 12, 1-8, 11-14), nel quale si
illustrano «le disposizioni date da Dio a Mosè e ad Aronne per celebrare la
prima pasqua, che avrebbe segnato il passaggio dalla condizione di servi allo
stato di uomini liberi. La scelta di un agnello immacolato, il più indifeso fra
gli animali, non è casuale»
Ed è «Cristo, vero
agnello immacolato, 'in tutto simile a noi eccetto nel peccato',
indifeso di fronte ai suoi accusatori», colui che «ci alimenta col suo corpo,
col suo sangue ci lava dalle nostre mancanze» con un sacrificio fondato
«proprio in questa notte, 'la notte in cui veniva tradito', come ci
ha ripetuto San Paolo (nella IIa Lettura, 1 Cor. 11, 23-26)». La notte nella
quale, una volta per tutte, «ci viene offerto un nuovo e salutare alimento e un
antidoto contro il peccato».
«L'Eucaristia però, come
abbiamo appreso dalla bellissima pagina del Vangelo (Gv. 13, 1-15) non si
esaurisce nel riceverla, ma ha un 'dopo', una valenza sociale e
comunitaria ... Non termina con la comunione sacramentale, tanto meno con la
fine della celebrazione eucaristica, essa si espande e si estende nella nostra
vita relazionale ... L'Evangelista Giovanni ci ricorda questa profonda realtà
con una scena insolita ed unica. Egli non riporta l'istituzione
dell'Eucarestia, ma si sofferma piuttosto a descriverci, attraverso l'esempio
del Redentore, come deve agire colui che ha comunicato al corpo e al sangue del
Signore».
Giorno
del ringraziamento e dell’imitazione nel dono di sé
La memoria si fa
‘comunione’, e questa ringraziamento [N. d. R. Eucaristia, in Greco], sicché,
tutte le celebrazioni della S. Messa «realizzano la profezia antica, fanno
memoria del gesto nuovo di Gesù e ci aprono al confronto con i fratelli, fatto
di servizio, modestia e vicinanza. Fatto soprattutto di umiltà: ci lasciamo
lavare i piedi per poi poterli lavare a nostra volta».
Ed ecco che l’Arcivescovo
Gangemi cita da un Salmo, che esorta a ringraziare: «“Che cosa renderò al
Signore, / per tutti i benefici che mi ha fatto?/Alzerò il calice della
salvezza ... / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento' (Psalm. 115,
3-9). E sottolinea che il nostro ‘grazie’ imperativamente deve esprimersi per
imitazione, nel totale servizio ai fratelli. Così Cristo stesso agli Apostoli:
«Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se
dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete
lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche
voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13, 13-15).
Gratitudine e imitazione
sono, pertanto, la sostanza stessa dell’adorazione, che davvero può unirci a
lui, come suggerisce un bellissimo testo eucologico, attribuito a S. Tommaso
d’Aquino: «Ti adoro devotamente, o Dio nascosto, / che sotto questi segni
veramente ti celi:/ a te il mio cuore
tutto si sottomette,/ poiché, nel contemplarti, esso viene meno» (Inno V, 1-4). Custodiamo nel cuore questo immenso dono e
riconoscendo la preziosità della grazia e l'indegnità della nostra vita
possiamo esclamare come il centurione: «Signore, non son degno che tu entri in
casa mia, ma dì soltanto una parola, e l’anima mia sarà salvata» (Mt. 8,
8).
Amen!
|