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 giovedì 27 aprile 2017

MESSINA

Omelia del Nunzio apostolico Santo Rocco Gangemi

di Redazione


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Vogliamo proporre ai nostri lettori un estratto dell’omelia pronunciata il giovedì Santo (23/04) nella Basilica cattedrale di Messina, durante la S. Messa in Coena Domini, dal Nunzio apostolico Santo Rocco Gangemi, che presiedeva la celebrazione. Abbiamo dovuto ridurre il testo per esigenze redazionali, ma abbiamo lasciato intatto lo schema concettuale del discorso, i suoi contenuti, le parole esatte: con ciò, vorremmo tentar di render ‘memorabile’ un’omelia densa di spiritualità e di carità per il ‘gregge’, di dottrina teologica e, ancora, di sapere storico e letterario. Un’omelia dal fascino speciale insomma, tanto più che ha costantemente serbato i toni mesti adatti alla circostanza. Inoltre – ecco un’altra ragione per dedicavi una pagina - essa dà la netta impressione di celare un senso supplementare, quasi di ‘omaggio’ alla nostra città, della quale anche Mons. Gangemi è figlio, e che, per quanto lontano viva, porta sempre nel cuore, con le sue devozioni, la sua storia, i suoi usi.

Il giorno santissimo

«Entriamo quasi in punta di piedi nel cuore della liturgia del giovedì santo, che attraverso i suoi testi eucologici [N. d. R. “di preghiera” dal Greco euchomai] e scritturistici ci offre molti spunti di preghiera e di meditazione. In questo giorno sentiamo qualcosa di speciale nella celebrazione dell'Eucaristia, anche se il rito è lo stesso, con eccezione di due elementi: la lavanda dei piedi e la reposizione del Ss.mo Sacramento alla fine della Messa».

«Nulla ci deve distrarre; anche il gesto di spogliare gli altari e lì, dove ancora si continua a fare, di coprire le immagini, ha questa motivazione: attirare l'attenzione verso Colui che è realmente presente in mezzo a noi con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e la sua divinità. Un unico movimento è permesso: piegare le ginocchia e silenziosamente adorare»!

Il pane di vita

«Tutta la liturgia di oggi ci parla del pane, ci parla del dono, ci parla dell'eucarestia, anche attraverso azioni a volte dimenticati, ma densi di significato e, soprattutto, di fede. In alcune parrocchie della nostra diocesi, retaggio della loro appartenenza al rito greco, si aggiungeva fino ad alcuni decenni addietro un gesto di una grande portata significativa, mi riferisco alla distribuzione del 'pane della cena', che veniva definito 'benedetto'. Un atto che era atteso da tutti; da chi partecipava e veniva in chiesa, e da chi.... attendeva a casa che 'gli apostoli' gli portassero quel dono ... Quel pane riporta con la mente all'Antidoron [N. d. A., “al posto del dono”, detto anche Eulogion, “benedizione”], pane benedetto, distribuito a coloro che non potevano accostarsi alla comunione».

«Esso veniva e viene dato non come sacramento, ma come fede in quel sacramento che per indisposizione spirituale non si poteva ricevere, memori del monito paolino: '…chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore...mangia e beve la propria condanna!' (Cor. 11, 27, 28)».

«Non c'era alcuna preghiera di benedizione per l'Antidoron, era il passaggio del più Santo tra i pani che rendeva santo il pane della consolazione». Esso «raggiunge i presenti vicini e i lontani, che, anche se assenti, con devozione lo ricevevano, lo baciavano, lo consumavano insieme a tutti i membri della famiglia e, in qualche caso, insieme a tutti gli esseri viventi che facevano parte dell'economia domestica, avevano cura, però, di conservarne un pezzetto da usare in caso di malattia».

«In questi gesti, probabilmente, erano mescolate insieme fede e pietà popolare, forse in qualche caso anche superstizione, in un intreccio difficile da dipanare, ma non possiamo negare che in quelle azioni semplici si manifestava un aspetto della vita fondamentale, che è la porta alla grazia e quindi alla salvezza: la religiosità».

E qui, un monito: non, in sé, il cibo consacrato, bensì la purezza di cuore e la fede con le quali lo si assume recano lo stato di grazia: «Gesù, dopo il segno della moltiplicazione dei pani, aveva affermato che esisteva una intrinseca differenza tra la manna mangiata nel deserto e il nuovo cibo dato da lui, di cui il pane della moltiplicazione era solo un segno e non una realtà: '...non Mosè vi ha dato il pane del cielo, ma il Padre mio vi dà il pane del cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo' e alla richiesta di quel cibo Gesù risponde: 'Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete' (Gv. 6, 32-33, 35).

L’Agnello

Ecco che l’annuncio di Gesù profetizza «quanto si sarebbe pienamente realizzato solo 'nella notte in cui veniva tradito'», e fino a quel tragico momento non veramente compreso dai discepoli, e tanto più che anche l’Antico Testamento lo vaticina tramite prefigurazione. Così, nel passo della Ia Lettura (Es. 12, 1-8, 11-14), nel quale si illustrano «le disposizioni date da Dio a Mosè e ad Aronne per celebrare la prima pasqua, che avrebbe segnato il passaggio dalla condizione di servi allo stato di uomini liberi. La scelta di un agnello immacolato, il più indifeso fra gli animali, non è casuale»

Ed è «Cristo, vero agnello immacolato, 'in tutto simile a noi eccetto nel peccato', indifeso di fronte ai suoi accusatori», colui che «ci alimenta col suo corpo, col suo sangue ci lava dalle nostre mancanze» con un sacrificio fondato «proprio in questa notte, 'la notte in cui veniva tradito', come ci ha ripetuto San Paolo (nella IIa Lettura, 1 Cor. 11, 23-26)». La notte nella quale, una volta per tutte, «ci viene offerto un nuovo e salutare alimento e un antidoto contro il peccato».

«L'Eucaristia però, come abbiamo appreso dalla bellissima pagina del Vangelo (Gv. 13, 1-15) non si esaurisce nel riceverla, ma ha un 'dopo', una valenza sociale e comunitaria ... Non termina con la comunione sacramentale, tanto meno con la fine della celebrazione eucaristica, essa si espande e si estende nella nostra vita relazionale ... L'Evangelista Giovanni ci ricorda questa profonda realtà con una scena insolita ed unica. Egli non riporta l'istituzione dell'Eucarestia, ma si sofferma piuttosto a descriverci, attraverso l'esempio del Redentore, come deve agire colui che ha comunicato al corpo e al sangue del Signore».

Giorno del ringraziamento e dell’imitazione nel dono di sé

La memoria si fa ‘comunione’, e questa ringraziamento [N. d. R. Eucaristia, in Greco], sicché, tutte le celebrazioni della S. Messa «realizzano la profezia antica, fanno memoria del gesto nuovo di Gesù e ci aprono al confronto con i fratelli, fatto di servizio, modestia e vicinanza. Fatto soprattutto di umiltà: ci lasciamo lavare i piedi per poi poterli lavare a nostra volta».

Ed ecco che l’Arcivescovo Gangemi cita da un Salmo, che esorta a ringraziare: «“Che cosa renderò al Signore, / per tutti i benefici che mi ha fatto?/Alzerò il calice della salvezza ... / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento' (Psalm. 115, 3-9). E sottolinea che il nostro ‘grazie’ imperativamente deve esprimersi per imitazione, nel totale servizio ai fratelli. Così Cristo stesso agli Apostoli: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13, 13-15).

Gratitudine e imitazione sono, pertanto, la sostanza stessa dell’adorazione, che davvero può unirci a lui, come suggerisce un bellissimo testo eucologico, attribuito a S. Tommaso d’Aquino: «Ti adoro devotamente, o Dio nascosto, / che sotto questi segni veramente ti celi:/ a te il mio cuore tutto si sottomette,/ poiché, nel contemplarti, esso viene meno» (Inno V, 1-4). Custodiamo nel cuore questo immenso dono e riconoscendo la preziosità della grazia e l'indegnità della nostra vita possiamo esclamare come il centurione: «Signore, non son degno che tu entri in casa mia, ma dì soltanto una parola, e l’anima mia sarà salvata» (Mt. 8, 8).

Amen!


 


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