PERSONAGGI
Omaggio a Tabucchi: vita, racconto e letteratura
di Redazione
Il
25 marzo del 2012 moriva uno dei rappresentanti più insigni della letteratura
del nostro secolo: Antonio Tabucchi, narratore, autore di teatro, saggista e
docente universitario. In “Tristano Muore.
Una vita”, l’autore riflette sulla letteratura, la sua funzione, i suoi
limiti e la relazione che intercorre tra essa e il vero-storico. Mi piace
ricordarlo attraverso quest’opera,
squisitamente letteraria, in cui il racconto autobiografico è a servizio dell’intellettuale
che si domanda se la letteratura può raccontare la vita, così come realmente è,
senza deformarla, senza che vi sia confusione tra il ruolo del
narratore-protagonista e quello dello scrittore-testimone.
Il
protagonista della narrazione è Tristano: un eroe partigiano che attende il
sopraggiungere della morte, mentre la cancrena divora il suo corpo. Minato nel
fisico e nell’anima, in preda alla cefalea, al delirio e alle allucinazioni
provocate dalla somministrazione di morfina, Tristano chiama al suo capezzale
uno scrittore mediocre per cristallizzare, attraverso la parola scritta, il
racconto della sua vita. Una ricerca spasmodica, quella di Tristano, di
ricostruire il filo logico della sua esistenza, per riappropriarsi della
propria vita, proprio quando è ormai prossimo alla morte. “Un fatto personale” la morte, che Tristano cerca di “geografizzare”, proprio come fanno gli
elefanti quando obbediscono alle leggi della natura e vagano nella savana alla
ricerca del luogo ideale in cui morire. Scortati da un amico fedele, gli
elefanti, quando interrompono il loro cammino, tracciano con passo stanco il
cerchio entro cui collocarsi e aspettare la morte. Tristano, allo stesso modo,
per dirigersi verso “il suo cerchio”
e poter abbracciare la morte, deve prima procedere all’indietro, nel tentativo
di trovare il filo che ricomponga la sua esistenza.
Lo
scrittore? È un testimone inadeguato, verso cui lo stesso Tristano esprime
spesso sfiducia e disprezzo, egli è per Tristano “il falsario”, colui che con la sua scrittura deforma il vero e
restituisce al lettore “il verosimile”,
filtrato attraverso la sua immaginazione. La vita scritta è “la vita che vive di fuori”, “la vita vera, quella che uno porta dentro”
– sostiene Tristano – “è un segreto che
non conosce nessuno”. Nessuna pretesa di successo, dunque, ma il tentativo
di ricomporre il puzzle della sua vita, seppur faticosamente, egli vuole
compierlo. Il fatto da cui prende avvio la narrazione è l’uccisione, da parte
di Tristano di un tedesco, colpevole di aver ammazzato un giovane dissidente.
Benché Tristano avesse agito più d’istinto che da eroe, suo malgrado, così
facendo aveva segnato tutta la sua esistenza. Quella vita stessa, dunque, che
Tristano vorrebbe ricomporre attraverso la parola scritta, sfugge essa stessa
all’intenzionalità di chi la vive.
Così,
egli commenta la rivolta innescata a Plaka: “Fu come se gli ingranaggi si fossero messi in moto da soli, con la
morte la vita aveva ripreso, e tutto andava ormai ad una velocità
incontrollabile, perché la vita è così, e la storia gli va dietro (…) potete
conoscere i meccanismi delle cose, ma il loro segreto non lo conosce nessuno”.
L’otto settembre: l’armistizio e il governo Badoglio avevano capovolto il
mondo. Chi erano i nemici? La libertà? La vita? Occorre difenderle uccidendo
altri uomini? Chi sono gli eroi? “La vita
degli uomini”, asserisce Tristano, “è
piena di miserie” e la responsabilità di ciascuno è già nei sogni, ma tra l’eroe
e il carnefice sta giusto qualche millimetro, perché nella vita il “chiaroscuro” offusca i confini tra il “bianco e il nero”. Accade nella vita di
Tristano che “la liberta” appaia come
“una parola elastica” che “in bocca a uno, piuttosto che ad un altro”
assume diverso significato.
È
un relativismo, quello a cui obbedisce Tristano, che compromette la fiducia
nella scienza e nella letteratura. Riflette l’eroe: “Tutti vogliono spiegare il mondo (…) una rosa è una rosa (…). Niente
affatto. Lo sai che il roseto e il pero appartengono entrambi alla famiglia
delle rosacee?”. L’unica filosofia a cui può obbedire Tristano è la “filosofia dell’uomo asciutto”: come un
sasso immobile che sta sulla riva, egli guarda l’acqua e il suo scorrere.
Rassegnazione o consapevolezza? Tristano vive la relazione col suo
interlocutore sul filo di un attrito perenne. Contrariamente all’intellettuale,
Tristano non cerca le risposte “ai perché”,
non le cerca perché è convinto di non poter mettere le cose in ordine: “La vita non è in ordine alfabetico come
credete voi”, ammonisce Tristano, “appare
un po’ qua e un po’ là, come meglio crede”. L’unico insegnamento possibile
non è quello impartito dall’intellettuale, ma dall’uomo-Tristano: “Ti sto insegnando che il tempo dell’orologio
non va di pari passo con quello della vita”, come un vecchio che cammina su
e giù, Tristano racconta al suo interlocutore “il vento”. L’oggetto della narrazione è inconsistente, se lo
scrittore non lo razionalizza in uno schema, ma il processo è da considerarsi
legittimo o va a discapito della verità? La storia di Tristano – che è prima di
tutto la storia di voci che si sommano e irrompono confusamente attraverso i
suoi sogni e le sue allucinazioni – è forse più vera di quella filtrata e
scritta dal suo testimone? Per il giovane Tristano “fu vero davvero quello che lui immaginò per tutta la vita, a tal punto
che è diventato il suo ricordo”.
Il
partigiano asserisce: “La storia la
facciamo noi, è una nostra invenzione, e ne potremmo fare un’altra, se solo
volessimo (…) signora storia (…) lei è solo una mia ipotesi”. La
letteratura è una geometria che non può contenere tutti i pensieri, i sogni e
il vissuto dell’uomo. Tuttavia, l’uomo, poiché ha bisogno di certezze, guarda
la vita attraverso una finestra, accetta il limite, le geometrie; l’uomo teme “lo sguardo circolare, dove tutto entra senza
senso e senza rimedio”. Lo sguardo di Tristano sulla vita è circolare, egli
consuma se stesso tra “ilarità e furia”,
non filtra nulla, il suo racconto delirante irrompe, irrazionalmente, e spezza
la logica della scrittura. Mentre aspetta la morte, Tristano apprende che “la storia è già stata fatta”. Chi vive è
come un musicista che interpreta una musica meravigliosa, il cui spartito,
tuttavia, è già stato scritto. Questa consapevolezza manca in gioventù,
Tristano la conquista e se ne appropria solo quando si trova davanti alla morte.
L’unico
filo che tiene insieme i frammenti della sua vita è tutto insito in questa
presa di coscienza. Lo scrittore? Qual è, dunque, il suo compito? Il compito
dello scrittore è fermare le azioni attraverso la parola. La parola non è il
principio, ma è la fine, l’atto finale: “…di
ciò che fummo, restano le parole, le
parole che testimoniano”; è dovere dello scrittore andare oltre le azioni
degli uomini e ciò che accade fuori di loro e provare a carpire ciò che vivono
dentro, intuire i loro pensieri. La vita e lo spirito di un uomo vivono nel
racconto più che nella scrittura, che è serva e subordinata ad esso. Dice Tristano
al suo interlocutore: “Io sono la voce, e
la tua è solo scrittura (…) la
scrittura è sorda, questi suoni che
ora senti nell’aria nella tua pagina moriranno, la scrittura li fissa e li
uccide (…) la scrittura è una voce fossile, e non ha più vita, lo spirito che
aveva con la mia voce non ci sarà più, resterà la tua scrittura (…) queste
parole sono vive, perché sono il mio respiro, finché c’è … la voce è respiro,
scrittore mettiti in ascolto”.
È
il suo penultimo giorno di vita e Tristano chiarisce che se il racconto vince
sulla letteratura, la vita vince sul racconto: “Questa voce ti ha raccontato la vita come poteva (…), ma capirai, la
vita non si racconta (…) la vita si vive e mentre la vivi è già persa (…)
sicché quello che hai sentito è un tempo resuscitato, ma non è il tempo di quel
respiro che fu vivo, quello è un respiro irripetibile”. Le parole, è questo
il grande inganno della letteratura, si illudono di afferrare la verità, ma la
vita è materia inaccessibile che “pullula
sotto”, è materia inafferrabile che sfugge agli schemi e a rigide
interpretazioni. Il mistero maggiore, chiarirà Tristano nel suo ultimo istante,
non è la morte, ma la vita stessa, è l’aver vissuto. Nell’atto estremo del
saluto, l’eroe si riconcilia con se stesso e con lo scrittore. Torna bambino
sulle ginocchia del nonno e il suo ultimo sguardo si posa sulla foto sbiadita
del padre. Che l’unica continuità logica e possibile non sia quella degli
affetti? È forse questa l’ultima
intuizione di Tristano? Chi può dirlo? Tabucchi è riuscito nel pregevole
intento di comporre un’opera in cui tutto è incompiuto e tutto sfugge.
Accade,
così, che il lettore perda quasi interesse per i personaggi-fantasma che
irrompono nei deliri di Tristano e che ricostruire la logica dei fatti e della
trama, non sia poi così importante. L’interesse si sposta sulle domande più che
sulle risposte. È il trionfo del relativismo di Tristano. Ciascun lettore,
infine, rimane con se stesso, si ritrova a guardarsi da dentro. I ragionamenti
di Tristano lasciano il posto a quelli di chi legge, infondo, respiriamo tutti
a nostro modo, sotto lo stesso cielo.
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