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 lunedì 5 dicembre 2016

LETTERATURA

Don Miguel Cervantes in Sicilia

di Enzo Farinella


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Il 2016 sta per chiudere le porte. Un altro anno per noi tramonta e poco più di quattrocento sono quelli che hanno visto il passaggio dalla vita terrena all’immortalità letteraria e a quella duratura del grande pensatore, Don Miguel de Cervantes Saavedra. Chi può dimenticare la sua Dulcinea Del Toboso, Sancho Pansa e Don Chisciotte de La Mancia, un cavaliere che ha fatto sognare lungo la storia di ieri e di oggi milioni di persone? Ricordo ancora i pomeriggi afosi di Aranjuez, i lunghi viaggi attraverso Castilla La Vieja e Castilla La Nueva, quando i raggi del sole ti davano l’impressione di veder tra le pale di un mulino al vento l’idealista Don Quijote parlare al suo scudiero Sancho. E simili allucinazioni Cervantes avrebbe potuto sperimentarle anche durante il suo soggiorno messinese o, per lo meno, avrebbe potuto sentirne parlare sul letto dell’ospedale della Città dello Stretto.

Mi riferisco, p.e., alla leggenda di Re Artù, la figura più eminente del mondo druidico, che, ferito mortalmente in battaglia dal nipote Mordred, sarebbe stato condotto dalla Fata Morgana, sua sorella e abitante dello Stretto di Messina, in un giardino incantato, all’interno del Vulcano dell’Etna, per ritornare un giorno a redimere il suo popolo. La “Fata Morgana”, che in lingua bretone significa “fata delle acque”, è la fata di Scin, figura mitologica celtica, e possedeva, tra l’altro, il dono dei giochi d’aria. A lei, viene attribuito il raro fenomeno ottico-meteorologico per cui la costa siciliana sullo Stretto appare non solo ravvicinata, ma anche riflessa al centro dello stesso mare a chi la guarda dalla Calabria.

Sarebbe stata la stessa Morgana che, alla guida di una nave d’argento dalle vele dorate, salpata dall’isola di Man, la mitica Avalon, attraversando l’Atlantico e il Mediterraneo, avrebbe portato il grande Artù, ferito a morte, fino alle falde dell’Etna. Qui, in un castello dove nessuno può morire – ed Arturo non morì – il Re guarì, ritemprato dalla forza arcana ed eterna che emana dalle viscere del vulcano e che trova una forma visibile nel rosso della sua lava e in quello vellutato dei suoi vini, capaci di stornare anche la forza di un ciclope o di far rinascere a vita nuova.

La Sicilia, terra di miti antichissimi, non avrebbe potuto non influenzare una delle più audaci intelligenze del XVII secolo. E questi si ripresentano ed echeggiano, continuamente, nei suoi scritti. A Cervantes, sono debitore per quanto ha scritto sulla Sicilia e, da un punto di orgoglio personale, per quanto mi ha insegnato durante tre anni meravigliosi dei miei anni verdi nel campus dell’Università Complutense. Che la sua Opera principale, il “Don Chisciotte”, possa essere stata tramata e iniziata durante un suo soggiorno all’ospedale di Messina, quindi, non solo non dovrebbe meravigliare, ma dovrebbe riempire d’orgoglio tutti i siciliani e spronarci a trovare mezzi e modi per saperne di più. Recentemente, a “Terrazza d’Autore” 2016, si è parlato di “Miguel de Cervantes e la Sicilia”, sotto la regia di Domenico Ciccarello e con letture dell’attrice Virginia Alba, “al calar del sole”, in quel di Valderice. La Sicilia, crocevia di civiltà, fu per lui motivo d’ispirazione, punto di rapporti importanti e terra di apprezzamento.

Dal letto su cui giaceva nell’ospedale di Messina, in seguito alla ferita riportata alla mano sinistra di cui per l’uso, nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, egli trovò l’ispirazione per il suo capolavoro, “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”. Le condizioni sfavorevoli di quei lunghi mesi di degenza, senza poter poggiare la spalla sinistra, non gli permettevano altro rifugio al di quello della propria fantasia. E, nell’opera di Cervantes, si coglie la necessità di fuggire da quelle condizioni, scoprire un sogno, seguire la follia istintiva che ogni essere umano sperimenta per non soccombere e vivere, coscientemente, la propria vicenda esistenziale. L’ospedale messinese gli ha offerto forse, per la prima volta, la possibilità di riflettere e di vagheggiare un mondo mai esplorato, ma sempre sognato. E tale intenzione si può osservare nella lettura del “Don Chisciotte”.

Tre anni dopo l’esperienza del dolore fisico, nel 1574, la Sicilia offre a Cervantes la possibilità di un rapporto d’amicizia con il poeta monrealese Antonio Veneziano, conosciuto a Palermo. Amicizia che si consoliderà tra le mura squallide di una prigione, ad Algeri, fatto prigioniero dai turchi mentre tornava in Spagna nel 1578. Anche qui le condizioni sfavorevoli servirono a cementare il rapporto umano tra due menti che si aprivano verso nuovi mondi, la loro amicizia intellettuale e stima reciproca. Lo stesso Leonardo Sciascia ne rimase impresso, dedicando un suo Saggio “Vita di Antonio Veneziano”, inserito nel Volume “La corda pazza”, al poeta di Monreale. Molti i versi che Cervantes dedica all’amico siciliano. Sfortunatamente, la risposta di Antonio Veneziano fu tiepida, quasi dettata da un certo senso di superiorità.

L’ammirazione, comunque, di Leonardo Sciascia per lo scrittore spagnolo rimane intatta e quando quest’ultimo pubblicherà il suo grande romanzo, “Don Quijote”, Sciascia cercherà, e con successo, di penetrare negli archetipi cervantini per scoprirne la hispanidad del Siglo de Oro. La Sicilia onorerà Cervantes anche con un rifacimento del “Don Chisciotte” in versi, ad opera del poeta siciliano Giovanni Meli. E, questo, non è poco. Cervantes da parte sua ammirerà la terra che l’ha ospitato e nella Novella “El amante liberal”, storia del trapanese Ricardo, prigioniero dei Turchi, rievocherà la bellezza della sua donzella Leonisa, del paesaggio trapanese, del suo mare e della sua gente, esprimendosi in versi sublimi.

Quattrocento anni dopo la sua scomparsa, Cervantes rimane come uno dei più importanti scrittori europei e, se alla sua grandezza letteraria ha potuto contribuire anche la Sicilia, questo dovrebbe essere motivo di orgoglio per noi e di studi continui sul messaggio e le varie tematiche di questo autore. Perché, allora, non potenziare dipartimenti universitari presso tutti i nostri Atenei siciliani, che possano illuminare, maggiormente, momenti culturali simili a quelli che, probabilmente, hanno investito anche la vita di Cervantes o a quelli che riguardano lo Shakespeare siciliano? Perché i nostri governanti non investono di più in cultura, l’unica capace di gettare ponti e rinforzare le fondamenta che nobilitano il pluralismo delle nostre nazioni, integrano la ricchezza delle diverse identità culturali e religiose e fondano il cammino comune verso obiettivi sociali, civili, politici, spirituali e culturali nella nostra Europa?


 


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