RECENSIONE
La voce degli dei di Jung in “Fai bei sogni”: dal libro al film
di Tiziana Santoro
 Recentemente,
prende vita sul grande schermo, “Fai bei
sogni”, il Racconto
autobiografico del giornalista Massimo Gramellini. Per l’occasione, il regista Marco Bellocchio ha selezionato un cast d’eccezione.
Tra i protagonisti: Valerio Mastrandrea è Massimo e Bérénice Bejo è la sua
futura moglie. Nel ruolo dei genitori del protagonista si distinguono, per l’intensità
magistrale della loro interpretazione, Guido Caprino e Barbara Ronchi. Il
regista Bellocchio mette a fuoco la storia-verità: quella del piccolo Massimo
che rimane orfano di madre all’età di 9 anni e che scoprirà, solo dopo 40 anni,
dell’avvenuto suicidio della donna. Una verità intuita e taciuta nell’inconscio.
In mezzo, c’è il vissuto del protagonista: la sua anaffettività, il bisogno
smisurato d’amore, l’incapacità di donarlo e la paura di combattere per i
propri sogni. A proteggere Massimo da una “verità scomoda” è “Belfagor”, quell’amico
immaginario che per impedirgli di soffrire lo aiuta a “staccare la corda dei
sentimenti”, trasformando la sua energia vitale in nevrosi. Il romanzo è, principalmente, il percorso
intrapreso dal protagonista e la storia dei tentativi fatti per riagganciare
quella corda dei sentimenti.
Infatti, solo riconnettendosi al suo dolore più
feroce, Massimo tornerà all’amore per la vita e ai suoi affetti. Il Gramellini
del romanzo è pura energia vitale, è
una persona in crescita e in evoluzione. L’attore Mastrandrea non ha taciuto –
nelle interviste rilasciate – la difficoltà di doversi misurare con un
personaggio che è reale e contemporaneo. Ecco, perché ha preferito non rifarsi
al libro, ma al copione, anteponendo alla persona-Massimo il personaggio che è
portatore di “una vicenda emotiva”, in cui chiunque può identificarsi. Sulla
stessa linea agisce Bellocchio, disposto a cedere sulla cadenza romana dell’attore
protagonista, per mettere a fuoco la tristezza espressa dai suoi occhi. Questa
stessa tristezza, però, tradisce l’energia positiva e l’impianto volitivo del
racconto. Bellocchio riesce meglio ad addentrarsi dentro al film quando, attraverso la “tecnica del
ribaltamento”, smorza la commozione e lascia fluire l’ironia di Gramellini,
rompendo schemi e patetismi che non appartengono al registro della narrazione.
Maggiormente, in linea col testo scritto è Guido Caprino, che ha ammesso di
aver scorto nelle pagine di Gramellini il “bisogno” sentito dal suo
personaggio: un uomo solo, inadeguato nel crescere un figlio, ma che in età
matura ammette la difficoltà di non essere riuscito a creare il dialogo
necessario.
Intensissima, negli sguardi e nelle movenze, Barbara Ronchi: come
un fantasma aleggia sempre, irrompe nel racconto, si coglie in lei il mistero
di un’infelicità che è presagio e chiave di volta dell’intera vicenda. Un film – quello di Bellocchio – in cui c’è
spazio per scene intense, avvertite come sospese in un tempo che si dilata. L’anaffettività
del protagonista è tutta espressa nella scena ambientata a Sarajevo, in cui
avviene l’incontro con un orfano di guerra, senza che vi sia identificazione
tra il protagonista e il bambino. Questo è l’estremo atto del protagonista di
non ammettere l’esistenza del lutto e del dolore come possibili. Altrettanto
efficace è la scena del gioco “nascondino”, in cui la madre finge di
abbandonare il protagonista e che sottintende una paura sempre presente, che
condizionerà a lungo le esperienze di vita di Massimo. Il finale – ha
dichiarato Bellocchio – è la chiusura dentro un ricordo, un’eterna nostalgia.
Ancora il regista, per dare profondità alla storia, documenta con precisione
dove e quando avviene, senza mai spostare la camera da presa e l’attenzione dal
destino del bambino protagonista. Si ritrovano nella storia musiche, immagini e
luoghi della Torino di Gramellini.
La scena che segna la conquista della verità
e di se stesso – da parte del protagonista – è espressa attraverso il ballo
scatenato e liberatorio e il bacio dato alla moglie: finalmente, Massimo toglie
il freno e si lascia andare, lascia fluire un’energia che è rimasta bloccata,
contratta, nel volto e nei gesti dell’attore protagonista, per tutta la durata
del film. Una contrattura interiore e gestuale che lo spettatore avverte sino
alla fine. Attenzione a non lasciare spazio a fraintendimenti, a salvare il
protagonista non è una donna – che si rivela quella giusta, proprio perché non
intende fargli da madre – ma l’intuizione. Nel libro, Gramellini cita Jung, in particolare “la voce degli dei”:
quei simboli che tutti noi possiamo scorgere nelle favole, nella musica e nei
miti. Un linguaggio universale del cuore, che non ha bisogno di parole e
ragionamenti. Se impariamo a stare in silenzio, a spegnere il rumore e ad
ascoltarci – sostiene Gramellini – “allora
la nostra intuizione ci suggerirà sempre qual è la cosa giusta da fare e chi è
la persona adatta a noi”, perché “la
vita ha senso, sempre, anche quando quel senso non ci piace”.
Anche se
nessuno aveva rivelato al protagonista la causa della morte della madre, lui
aveva custodito quella verità nel suo inconscio per 40 anni; ma aveva scelto di
vivere senza voler ascoltare “la voce degli dei”, coprendola con rumori,
pensieri ed emozioni. L’antidoto di Gramellini è fare bei sogni: “Solo chi fa bei sogni attinge all’energia
dell’universo, quella dell’amore. Non coniughiamo più i verbi al futuro. E se
sparisce il futuro il primo a morire sarà il presente”. L’ultima pagina
della storia – quella che non trova riscontro nella narrazione cinematografica
– è, forse, quella più importante: l’esortazione del protagonista a dare vita
ai propri sogni, quelli per cui siamo venuti al mondo. Se Bellocchio ha mancato
in qualcosa, possiamo dire che è venuto meno in lui l’ascolto di quella “voce
degli dei” che ha dato forza, vitalità ed energia al libro. Rimane allo spettatore cinematografico solo “la
foto-documento”, ciò fa di lui il vero “orfano della rappresentazione”. Chi è
seduto in sala, non entra mai in empatia col personaggio e con la sua vicenda,
né è destinatario di un messaggio, rimane solo un tiepido spettatore.
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