IL MEDIO ORIENTE RESTA UNA POLVERIERA
Il 2013 si conclude con il mondo in ebollizione
di Romina Gobbo
A
pochi giorni dall’atteso summit
internazionale sulla crisi siriana, che si terrà a Ginevra il 22 gennaio p.v., le varie fazioni degli oppositori
al regime di Assad sono in lotta fra loro, tanto che si comincia a parlare di
una “seconda guerra civile”.
Ma
non v’è dubbio che il degenerare della situazione siriana diventa
fonte di instabilità per tutta l’area. L’Iraq, mai pacificato da quando, nel
2011, gli ultimi contingenti americani si sono ritirati, lo scorso anno ha
registrato 3.000 morti per sparatorie, esplosioni di autobombe e attentati
suicidi. Ma, negli ultimi giorni, la presa di Falluja e i combattimenti attorno
a Ramadi, capitale della turbolenta regione di Anbar, da parte dei guerriglieri
dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, movimento estremista
sunnita, affiliato ad al-Qaeda), hanno aggravato la situazione, bloccando il
timido processo di normalizzazione e di crescita sul fronte politico ed
economico, a tre mesi dalle elezioni parlamentari (che si terranno il 30 aprile),
suscitando le preoccupazioni degli Usa.
Non
c’è pace neppure in Libano, dove una nuova ondata di attentati e scontri
armati sta scuotendo Beirut e dintorni; l’apice è stato raggiunto il 27
dicembre scorso, con l’attentato che è costato la vita all’ex ministro delle
Finanze, Mohammad Shataha, molto vicino all’ex premier Saad Hariri e critico
verso Hezbollah. Il rinnovato scontro tra sciiti e sunniti libanesi è stato
infiammato dal conflitto in Siria, dove si fronteggiano un regime proveniente
dalla maggioranza sciita del Paese (gli alawiti), sostenuto da Hezbollah, e un’insurrezione
a maggioranza sunnita. Un’evoluzione simile a quella in corso in Iraq, dove la
minoranza sunnita si è ribellata alla maggioranza sciita, al potere da dopo la
caduta di Saddam Hussein.
Dopo
che l’esercito, deposto il presidente Mohamed Morsi, ha messo al bando il
movimento dei Fratelli Musulmani, proclamandolo “organizzazione terroristica”,
l’Egitto vive momenti difficili. Così, i copti ortodossi, il 7 gennaio hanno
festeggiato il Natale fra la speranza di “una nuova vita” (la nascita di Gesù)
e la paura di attacchi da parte degli estremisti islamici. Con posti di blocco
e gran dispiegamento di polizia, la città del Cairo tiene alto il clima di
allerta, memore dell’ultima “Settimana dell’Ira” (dicembre 2013), proclamata
dalla Fratellanza contro il regime sostenuto dalle Forze Armate, che ha
provocato sei morti in poco più di 24 ore, a seguito degli scontri scoppiati
nel campus della prestigiosa università al-Azhar, tra giovani islamisti e
agenti.
Rimane,
invece, estraneo al conflitto religioso l’Afghanistan, ma ad un anno dal ritiro
delle truppe alleate, non si può certo dire che la situazione sia tranquilla.
Lo chiamano warning e significa
rischio elevato. E così, dalla base italiana di Herat (sede del Regional
Command West), a comando Brigata meccanizzata “Aosta”, noi giornalisti – presenti
dal 27 dicembre 2013 al 5 gennaio 2014 – siamo potuti uscire poco. Proprio la
mattina del 5 gennaio u.s., un
elicottero CH47 “Chinook”, della Task Force “Fenice” italiana, è stato
bersaglio di diversi colpi d’arma da fuoco, nessun militare è stato ferito, ma
non c’è dubbio che la tensione nel Paese resti elevata.
E
Gaza piange il primo morto dell’anno; si tratta di Abu Khater, colpito il 2
gennaio a Jabaliya dalle forze israeliane, secondo le quali l’adolescente
lanciava sassi oltre la recinzione di confine con Israele (la zona cuscinetto
di sicurezza, considerata off limits
per i palestinesi, si estende tra 500 e 1.500 metri nella Striscia). La morte
del ragazzo segue un periodo di raid israeliani, che si sono accaniti su varie
zone di Gaza City.
Ma
non solo il Medio Oriente è in ebollizione. In seguito ai disordini tra forze
lealiste e unità ribelli, in Sud Sudan continua ad aumentare l’instabilità. Il
Centrafrica rischia d’implodere, a causa di continue rappresaglie fra esponenti
dell’ex coalizione ribelle Seleka e miliziani anti Balaka. Un altro fronte
caldo è la frontiera col Camerun, dove banditi centrafricani hanno saccheggiato
alcuni villaggi camerunensi. Ma il Camerun se la deve vedere anche con i
terroristi di Boko Haram, infiltratisi dalla provincia dell’estremo Nord.
A
fine 2013, uomini armati hanno attaccato il quartier generale della tv e della
radio di Stato, a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo,
prendendo in ostaggio alcuni giornalisti. Successivamente, la polizia locale ha
ripreso il controllo della situazione, ma, in un Paese lacerato da vent’anni di
conflitto, gruppi ribelli armati prosperano nelle zone più impervie, rimanendo
fuori controllo, nonostante la presenza di circa 20mila Caschi blu delle
Nazioni Unite.
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