LIBRI
Lorenzo Marone: L’elogio dell’imperfezione
di Tiziana Santoro
 “In che senso?” è la frase che l’autore
Lorenzo Marone mette ossessivamente in bocca ad Andrea Scotto, disincantato
protagonista della sua ultima fatica letteraria “Tutto sarà perfetto”.
Irresponsabile, infantile, egoista, Andrea asseconda la vita ignorandone il
senso. Quel senso inafferrabile su cui non si interroga per coglierne l’essenza,
quanto più per assicurarsi un alibi per le sue inadempienze. “In che senso” è
una frase chiave che costantemente riecheggia nelle orecchie del lettore
guidandolo sino al cuore di un racconto corale, i cui personaggi declinano la
vita ciascuno a loro modo. Marina è sorella, figlia e moglie che rincorre un
modello di perfezione esistenziale delimitato da regole e ristrettezze. Il
comandante Scotto non smette mai di fuggire dalla famiglia e dalle sue
dinamiche; Libero di nome e di fatto che insegua l’ignoto, un orizzonte in alto
mare o uno spazio metafisico, poco importa, la sua dimensione esistenziale
ideale è sempre “la distanza”.
Delphine è una presenza-assenza che
pesa nella vita di tutti i personaggi: prematuramente scomparsa, ha convissuto
con una malattia che ha predeterminato ogni sua azione e stravaganza. Poi, c’è
Ondina: come appare agli abitanti di Procida, come appare ad Andrea e come
realmente è; come un’onda si agita, si infrange contro la vita e obbedisce a un
moto istintivo che la governa e che la contrappone alle convenzioni. Nelle loro
vite, luci e ombre, quelle ragnatele, quei “ragnetti” – dirà Andrea – che
imbrigliano i pensieri e condizionano le azioni, quei “non-senso” di cui si
popola la condizione esistenziale di ciascuno. I personaggi si destreggiano
goffamente attraverso dinamiche relazionali: madre-figli, padre-figli,
fratello-sorella, fratello-fratello, passioni-adolescenziali, amori immaturi,
cliché di un modello familiare ordinario che la conclusione del romanzo
sovverte e restituisce al lettore in chiave anticonvenzionale. Sullo sfondo
delle azioni e tribolazioni emotive dei personaggi c’è Procida, la sua
connotazione emotiva: quella del ricordo, quella del ritorno e dell’oggi.
Il cuore di Procida è Ciccio:
autista, tuttofare, generoso testimone, sempre a servizio delle vite altrui,
sempre pronto a donarsi per “mettere la pezza dove occorre”, non giudica, né
pretende di modificare gli eventi. Ciccio accetta con saggia rassegnazione il
moto imperfetto delle vite che scorrono davanti ai suoi occhi e lascia che sia.
I personaggi di Marone per resistere devono fare i conti con le loro radici,
guardare in faccia le proprie paure ed estirpare i cespi, ciò che àncora,
paralizza e impedisce l’evoluzione, la crescita, la rinascita personale.
Procida è l’Isola che avvolge e protegge, ma per vincere la paura è necessario
lasciare il porto, sfidare il mare, salpare su nuove terre. Ci sta che il
concetto di viaggio implichi l’imprevisto di imbattersi in qualche fermata che
obbliga a riflettere, giacché mettersi in cammino significa anche correre il
rischio di ritrovarsi a percorrere a testa bassa una strada sbagliata e di
dover riconsiderare le proprie scelte.
Governato dalla vita, dagli eventi e
persino dall’autoritario bassotto, Andrea si salva solo grazie al suo talento.
Per vedere realmente dentro la vita, deve puntare l’obiettivo della macchina
fotografica su quei difetti che denunciano disfatte, sogni, desideri, delusioni
e verità. Andrea torna in contatto con se stesso, col suo sogno di fotografo
che sa scorgere la bellezza nei dettagli e nelle imperfezioni; la curiosità
come e più dell’amore, spesso basta a salvare una vita, a mettere a fuoco
scintille di perfezione. In un vitalismo ondoso che muove e agita le vite dei
personaggi, il senso della vita, il puzzle scomposto che presenta vuoti
incolmabili, Marone lo affida al tempo “Dicono
che il tempo aggiusti anche gli
uomini: spesso spendono male gran parte della vita per poi salvarsi nel finale
proprio grazie al tempo, che fa come il
padre quando il figlio non sa andare in bici, afferra il manubrio e dà una
sferzata veloce”. La presunzione di Andrea è l’atavica presunzione degli
uomini: il desiderio di governare il tempo: di dilatarlo consumando l’amore
come durante l’adolescenza o maledicendolo per quella felicità che dura un
istante e si dissolve come polvere; salvo poi accettare che il “gioco della vita”
consiste nel lasciare andare, nel perdere ogni giorno qualcosa.
Il senso del romanzo sta più nell’imperfezione
che nella perfezione, più nella diversità che nell’ordinarietà. Osservando la
foto della madre, Andrea impara a rafforzare la sua identità e a stare al gioco
della vita: “...sarò come mia madre, imperfetto ma bello, saprò
guardare oltre le apparenze, se
imparerò a non celarmi dietro falsi sorrisi e mi accontenterò di non avere
risposte, abbandonandomi senza lotta alla disarmonia interiore che mi fa
sentire sballottato di qua e di là, come una bottiglia di plastica finita nel
mare per colpa di chissà chi”. Non c’è altro senso, dunque, se non quello
della vita stessa: un moto che ci afferra e ci spinge anche quando siamo
disorientati e sofferenti. Sono attimi di “trascurabile
infelicità” che si superano quando “la
vita che abbiamo dentro torna a fare
da bussola e direziona, aiuta a tenere il timone dritto. E rende pronti ad
andare incontro alle onde”. La
felicità non si trova nella perfezione, ma in quell’attimo che sfugge alle
regole e nella sensibilità di chi sa cogliere, nel chiaroscuro della messa a
fuoco, lampi di imprevedibile bellezza.
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