GIUDICE TUTELARE
L’amministrazione di sostegno e la residualità dell'interdizione
di Rita Russo
 Nell’anno 2004
la legge n. 6 del 9 gennaio ha riscritto l’intero titolo XII del codice civile
e, al fine di chiarire, immediatamente, il cambiamento di rotta, ne sostituisce
la intitolazione: già, dedicato a trattare “della
infermità di mente dell’interdizione e della inabilitazione”, il titolo
diviene “delle misure di protezione delle
persone in tutto o in parte prive di autonomia” e riscrivendo gli artt.
404-413 del codice civile introduce la misura di protezione dell’amministrazione
di sostegno. Misura di protezione della persona, come specifica il titolo, e
non di conservazione del patrimonio. Contestualmente, la legge riscrive e,
significativamente, l’art. 414 codice civile, secondo la cui formulazione
originaria i soggetti che “si trovano in
condizione di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere
ai loro interessi devono essere interdetti”, mentre oggi questi stessi
soggetti “sono interdetti quando ciò è
necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.
Alla finalità di
conservazione del patrimonio e di garantire la sicurezza della circolazione
giuridica e la tutela dell’affidamento dei terzi si sostituisce, quindi, la
finalità di proteggere la persona e si inserisce il concetto di adeguatezza,
con ciò implicando una valutazione da rendersi in concreto, non necessaria in
precedenza, quando l’accertamento della infermità mentale e della sua severità,
idonea ad incidere sulla capacità di intendere e di volere, determinava per il
giudice il dovere di pronunciare l’interdizione, misura ablativa della capacità
di agire e che importava, quindi, la sostituzione del tutore all’interdetto
negli atti di gestione e disposizione del patrimonio, nonché, la integrale privazione
della capacità di compiere gli atti personali come il matrimonio ed il
testamento. Sfuma, invece, con la novella la rigida alternativa capacità/incapacità,
che ha, tradizionalmente, contraddistinto l’atteggiamento del legislatore in
ordine alle situazioni di svantaggio personale. Non si tratta solo di introdurre
un tertium genus, ma di un nuovo modo
di pensare i diritti del soggetto di diminuita autonomia e, principalmente, il
diritto di partecipare alla vita sociale nei limiti i cui la malattia, il disagio,
la condizione sociale e personale lo consente.
La legge ancor
prima di riscrivere una parte del titolo XII del codice civile, pone una
finalità: l’art. 1 attribuisce all’amministrazione di sostegno “la finalità di tutelare, con la minore
limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in
parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana,
mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
L’art. 404 cod.
civ., nel testo modificato da tale legge, precisa che “La persona che, per effetto di una infermità, ovvero, di una
menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche, parziale o
temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un
amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare”.
L’interdizione
si pone, quindi, oggi come misura residuale, eccezionale, laddove l’amministrazione
di sostegno rappresenta il rimedio ordinario da utilizzare per fronteggiare le
esigenze di protezione e cura delle persone svantaggiate. Da evidenziare,
inoltre, un’altra caratteristica: la duttilità del nuovo istituto che consente
di personalizzare, volta per volta, i poteri dell’amministratore sulle concrete
esigenze del beneficiario. L’ampiezza dei poteri da riconoscere all’amministratore
di sostegno sono da valutare di caso in caso e sono estensibili, anche, ad
alcuni compiti propri della tutela.
Questi concetti sono
stati sviluppati dalla Corte di Cassazione, che ha affermato il principio di
diritto secondo cui il nuovo istituto ha la finalità di offrire a chi si trovi
nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri
interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura
possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione,
dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali, appunto, l’interdizione o
l’inabilitazione.
Secondo la
Corte, rispetto a tali istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione
di sostegno va individuato non tanto con riguardo al grado di gravità della
malattia o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto
carente di autonomia, ma, piuttosto, alla maggiore idoneità di tale strumento
di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua
flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Ciò
costituisce una chiara ed esplicita indicazione ai giudici verso il criterio
funzionale, con un approccio, decisamente, casistico, illuminato dal principio
che la misura prevista dall’art. 404 codice civile si fa preferire per il maggior rispetto della dignità dell’individuo,
il che equivale a negare
cittadinanza, ogni volta che sia possibile, a quelle misure che, invece, la
dignità dell’individuo non la rispettano. Non si può ignorare, infatti, che
anche l’individuo più malandato conserva, quasi sempre, una certa coscienza di
sé e che a questa coscienza di sé la etichetta della interdizione assesta,
spesso, una ferita profonda; e, comunque, il rispetto della dignità umana è
dovuto a tutti, anche a coloro che meno sono in grado di percepire gli effetti
mortificanti della esclusione della vita civile.
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