RECENSIONE
INGHIOTTITA: La farfalla d’acciaio di Ducharme
di Tiziana Santoro
 La
Casa editrice “La Nuova Frontiera”, coraggiosamente, nel febbraio del 2018 dà
alle stampe il romanzo “L’avaléè des avalés” di Réjean Ducharme. Tradotto con
grande perizia da Alice da Coseggio e presentato al pubblico col titolo
Inghiottita, il romanzo di Ducharme è finalmente accessibile a un’ampia schiera
di lettori italiani. Opera d’esordio del venticinquenne autore canadese, “Inghiottita”
è stato scritto nel 1966 e incentrato sul “monologo nevrotico” della
protagonista Bérénice. Il personaggio è avvincente, spietato, nichilista,
autodistruttivo e anticonformista. La nevrosi è la lente deformante attraverso
cui interpreta la realtà che la circonda per svelarne i limiti e preservare se
stessa. Bérénice è un personaggio antieroico, sprovvisto di una morale comune;
conquista il lettore perché non cede mai il passo ad alcuna forma di ipocrisia
e non giunge mai a compromessi con le convenzioni sociali.
La
protagonista, più maleducata della storia della letteratura, piega ogni logica
conformista alla sua volontà, suscitando avversione e disapprovazione in ogni
ambito e contesto in cui agisce. Bérénice è tagliente e spietata nel ragionamento,
ma Ducharme le mette in bocca parole crude, autenticamente spinose, ma al tempo
stesso poetiche e delicate come fiori. Il romanzo di Ducharme schiaffeggia e
accarezza il lettore, trasportandolo continuamente dal piano della narrazione
cruenta a quello dell’ispirazione poetica. La trama attraversa la vita della
protagonista e ripercorre gli eventi principali della sua crescita, dall’infanzia
sino all’età adulta, così come lei li riferisce sotto forma di scatti di nervi
fulminei. Bérénice è un personaggio in fuga che lotta per non essere
inghiottita da un mondo che non accetta. Intorno a lei si agitano figure
mediocri: la madre cattolica, il padre ebreo, il fratello Christian, l’amica e
alter ego Constance, il rabbino, lo zio e molti altri ancora.
Nessuno
di questi ha vita se non attraverso l’inconscio di Bérénice, ciascun
personaggio pretende di darle una direzione verso quell’idea di felicità che
coincide con i loro schemi mentali, morali e sociali che, tuttavia, sfugge
persino a loro stessi. Il falso buonismo dei personaggi è continuamente messo
alla prova dai comportamenti di Bérénice, il cui unico scopo è vivere libera,
anche a costo di dover distruggere ogni legame con chi dice di amarla. Secondo
la logica conformista, la protagonista è affetta da nevrosi, ma nell’ottica di
Bérénice i veri malati sono coloro che la circondano: la madre prigioniera di
un matrimonio che la costringe in un ruolo in cui non si riconosce; il padre
che le impone il proprio credo religioso per fare dispetto a una moglie che
tradisce, ma non vuole lasciare andare; Christian il “fratello molle” che non
soddisfa i suoi bisogni perché è troppo intento ad assecondare l’amata madre
cattolica e persino lo zio maschilista che ha la presunzione di controllare e
gestire le persone come fossero l’azienda di famiglia.
Ciascuno
è schiavo di qualcosa e mente a se stesso e agli altri solo per preservarsi,
per trovare un riparo che gli suggerisca un’illusione di benessere. In questo
gioco di opposti schieramenti, in cui non c’è posto nemmeno per l’amore
autentico, il desiderio di vivere di Bérénice regna sovrano e umilia
costantemente l’ipocrisia e il conformismo sociale. La nevrosi di Bérénice è
per lei la cura che tiene lontano gli altri, che fa in modo che lei sia e
rimanga “una farfalla lontana” anche quando provano a tenerla in mano. La
solitudine è per la protagonista un palazzo, un sole, una roccaforte attraverso
cui si ricrea, si rimette al mondo. Bérénice si crede figlia di se stessa, una
statua che si adopera per cambiarsi, che si scolpisce da sé in qualcos’altro ed
esige di essere ciò che vuole. Il suo desiderio di morte, i deliri notturni, il
rifiuto del cibo, sono per la protagonista espressione e sete di vivere, agire,
cambiare oltre ogni convenzione e limite, infatti così si esprime: “(…) non resterò qui a tagliare pietre dalla
noia e a farle rotolare dalla noia.Non sono una di quelli
che costruiscono cattedrali. Sono piuttosto di quelli che muoiono dalla voglia
di espandersi su tutta la distesa del cielo, come l’azzurro”. Bérénice nella sua sete d’infinito è sempre sola, gli esseri umani le appaiono
come cani ammaestrati e persino l’amore non è che un’idea, una costruzione
della coscienza priva di verità. Perennemente in viaggio dall’isola natia verso
la California, New York e Israele, Bérénice rivela più volte la sua smania di
cambiamento: “Io devo fuggire come un
ladro e non ho preso altro se non la mia vita”. Nella sua corsa, la
protagonista non cerca riparo ma immensità: “Un rifugio, per quanto sicuro possa essere, non è forse una gabbia, una
prigione, un sotterraneo buio e viscido? Ho più voglia della vita nella sua devastatrice immensità che dei
trinceramenti dolci e affollati che ci hanno costruito. Una baia non mi dice
niente. Ho bisogno di tutto il continente, di tutti i continenti (…) voglio
essere inghiottita da tutto, non fosse altro che per uscirne fuori. Voglio
essere attaccata da tutto ciò che ha delle armi”.
Ducharme
conclude il romanzo in modo geniale con un paradosso beffardo. In un contesto
di sfida tra falsi eroi e una nevrotica-savia, l’atto finale è scandito da
Bérénice che per trarsi in salvo, durante una sparatoria, si fa scudo col corpo
di una compagna, ma dichiara di essere sopravvissuta perché l’amica ha scelto
di proteggerla sacrificando se stessa. Bérénice l’ha fatta franca ancora una
volta, ha sfidato gli eventi, si è spinta oltre il limite e ne è uscita
indenne, complice il bisogno d’illusione degli uomini. Lucidissima nel
commentare l’accaduto, afferma lapidaria: “Mi
hanno creduto. Avevano giustappunto
bisogno di eroine”. In un contesto di maldicenti che si nutrono di illusioni
e si compiacciono delle proprie regole, persino nell’ultimo rigo, Bérénice
trova il modo per appartenere a se stessa, per afferrare la vita, per essere e
determinare il suo destino.
In
333 pagine da leggere in una notte, tutte d’un fiato, Ducharme ha consegnato ai
lettori un personaggio-capolavoro, una “farfalla d’acciaio” che attraversa i
limiti umani, che rielabora i sentimenti, l’amore, la morte, le convenzioni,
che mette in crisi se stessa e il sistema, certa sempre di essere Bérénice “la
regina delle valigie”, convinta che ovunque si trovi ci sia sempre qualcosa di
grande da intraprendere e di impossibile da fare.
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