RECENSIONE
Sofia si veste sempre di nero: storia di un personaggio inafferrabile
di Tiziana Santoro
 Paolo
Cognetti (nella foto) è l’autore di “Sofia si veste sempre di nero”, un romanzo
in cui si incastrano 10 racconti autonomi che ruotano tutti intorno alla
protagonista. Il lettore inseguirà Sofia dalla prima all’ultima pagina dell’intero
libro, ma dovrà rassegnarsi a perderne le tracce, perché Sofia pratica l’arte
della fuga con perizia. La protagonista irrompe nella vita delle persone che
incontra, influenza le loro esistenze e poi si dissolve nel nulla. Chi è Sofia?
Che fine ha fatto? Non lo saprà mai nessuno, ciò che rimane di lei sono
frammenti, episodi, intuizioni che gli altri personaggi riportano. Il ritratto
di Sofia è sempre sfumato, incompleto, labile. Cognetti si limita a definire il
contesto storico e l’ambiente borghese in cui Sofia nasce e da cui
probabilmente scappa.
Persino
i personaggi vengono delineati puntigliosamente, ciascuno con una propria
storia personale e un proprio profilo psicologico, potrebbero essere a loro
volta protagonisti di un racconto autonomo. C’è il padre di Sofia, morto di
tumore, che si barcamena tra una moglie problematica e un’amante risoluta; la
madre Rossana sempre sull’orlo di una crisi di nervi, definita una “porta
chiusa” e inaccessibile; la zia Marta, antitesi del fratello cattolico e
rivoluzionaria impenitente; infine, ci sono i numerosi amanti di Sofia, una
schiera di artisti problematici: Pietro, Nathan, Juri, Leo, tutti eternamente
affascinati da lei, ma incapaci di trattenerla. Una cosa è certa, sopravvissuta
a fatica durante il momento del parto, per Sofia la nascita è da subito “una nave che parte per la guerra”. Il
primo insanabile conflitto lo vive in casa è quello tra i genitori perennemente
in crisi matrimoniale.
Le
tensioni nella sua famiglia implodono, persino il padre cattolico e la zia
comunista hanno vissuto cercando la felicità nel futuro, ma Sofia vuole essere
felice nel presente e per questo deve superare la sua “filosofia del dolore”,
guarire dall’anoressia, sopravvivere al tentativo di suicidio. Sofia è figlia
più del suo tempo che dei suoi cari: si sente come una mongolfiera in gabbia e
ritaglia per sé spazi interstellari in cui non entrare in collisione con
nessuno. Sofia ha un’intelligenza viva, non sa fare, ma sa imparare e ha capito
che la sua felicità passa attraverso la conquista della libertà. Questo è l’insegnamento
della zia Marta, che l’ha accolta in casa sua, per restituirla alla vita e alle
sue passione più grande: il teatro. Sofia crescendo impara ad assecondare il
suo talento, studia per diventare attrice, si abbandona al flusso della vita e
quando intuisce la fine delle cose, scappa altrove.
Quello
di Sofia è un nomadismo geografico e affettivo, nella sua vita tutto è in
perenne mutamento: città, lavoro, persone. Tuttavia, nessun addio è indelebile
nella sua mente, nemmeno la morte del padre, perché Sofia fugge, ma il ricordo
che le rimane è solo l’istante che precede l’addio. Sofia sparisce e non saluta
nemmeno, quando cambia vita chiude la porta con la disinvoltura di chi entra
nella stanza accanto, di lei rimangono gli oggetti disseminati nelle case in
cui ha abitato e l’emozione con cui ha travolto le vite degli altri. Sofia
viaggia sempre leggera, la sua unica casa è la vasca da bagno, luogo in cui si
rilassa e dialoga con se stessa. La protagonista è come un gas che si espande,
riempie, spesso ingombra, talvolta ispira. Il ritratto più puntuale che
sopravvive di lei è quello fatto dalla zia, con cui ha vissuto.
Per
Marta, Sofia è la sua “nipotina asimmetrica”: ironica, spavalda, sorridente,
aggressiva quando prova a farsi strada da sola e si mostra in pubblico; seria,
diffidente, minacciosa e schiva quando riflette sulla vita e se stessa. Le sue
due identità sono perennemente in conflitto: l’una la tira per correre avanti,
l’altra punta i piedi e la inchioda. Sofia crescendo imparerà a essere maestra
e allieva della sua vita. L’amore inteso in senso assoluto, come fusione con l’altro
e non semplice compagnia tra due persone diverse, avrà sempre un risvolto
deludente e Sofia finirà per scegliere il viaggio e il cambiamento. L’amore
rimarrà per lei eternamente nella pancia, un vecchio cane cieco che le manca da
quando è andata via da casa.
Ciò
che rimane di Sofia è una foto in cui è sempre sola e un film incompiuto. Per
il lettore, che per ben 199 pagine si è sforzato di cercare Sofia e di dare
unicità alla sua psicologia e alla sua vita, ecco la rivelazione: e se il
regista Juri fosse lo stesso Cognetti? A sentir parlare il personaggio del suo
film, sembra di udire, presumibilmente, Cognetti che recensisce se stesso: “… molte
immagini erano belle …. anzi erano vere. Ma stavano dentro
al film come un mucchio di fotografie in una scatola: potevi fermarti a guardarne una e ignorare le altre, o sparpagliarle
per terra inventando una trama tua,
tanto una trama non c’era, c’erano solo la bellezza e il caso. (…). È un lavoro
pieno di idee, di gusto estetico, di
pensiero e soprattutto di vita. Ma non va da nessuna parte”.
La
trama di Cognetti è piena di buchi, l’autore rinuncia al racconto organico, gli
interessa ciò che rimane fuori dall’inquadratura. Quando il romanzo è compiuto
e Sofia sparisce improvvisamente, anche Pietro e Juri rimangono da soli a
fantasticare sulla fine che può aver fatto. In conclusione, persino i due amici
rinunciano a formulare nuove ipotesi, perché Sofia è predestinata a vivere nei “momenti
speciali” e a ispirare le vite delle persone che incontra.
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