LETTERATURA
Don Miguel Cervantes in Sicilia
di Enzo Farinella
 Il
2016 sta per chiudere le porte. Un altro anno per noi tramonta e poco più di
quattrocento sono quelli che hanno visto il passaggio dalla vita terrena all’immortalità
letteraria e a quella duratura del grande pensatore, Don Miguel de Cervantes
Saavedra. Chi può dimenticare la sua Dulcinea Del Toboso, Sancho Pansa e Don
Chisciotte de La Mancia, un cavaliere che ha fatto sognare lungo la storia di
ieri e di oggi milioni di persone? Ricordo ancora i pomeriggi afosi di
Aranjuez, i lunghi viaggi attraverso Castilla La Vieja e Castilla La Nueva,
quando i raggi del sole ti davano l’impressione di veder tra le pale di un
mulino al vento l’idealista Don Quijote parlare al suo scudiero Sancho. E
simili allucinazioni Cervantes avrebbe potuto sperimentarle anche durante il
suo soggiorno messinese o, per lo meno, avrebbe potuto sentirne parlare sul
letto dell’ospedale della Città dello Stretto.
Mi
riferisco, p.e., alla leggenda di Re Artù, la figura più eminente del mondo
druidico, che, ferito mortalmente in battaglia dal nipote Mordred, sarebbe
stato condotto dalla Fata Morgana, sua sorella e abitante dello Stretto di
Messina, in un giardino incantato, all’interno del Vulcano dell’Etna, per
ritornare un giorno a redimere il suo popolo. La “Fata Morgana”, che in lingua
bretone significa “fata delle acque”, è la fata di Scin, figura mitologica
celtica, e possedeva, tra l’altro, il dono dei giochi d’aria. A lei, viene
attribuito il raro fenomeno ottico-meteorologico per cui la costa siciliana
sullo Stretto appare non solo ravvicinata, ma anche riflessa al centro dello
stesso mare a chi la guarda dalla Calabria.
Sarebbe
stata la stessa Morgana che, alla guida di una nave d’argento dalle vele
dorate, salpata dall’isola di Man, la mitica Avalon, attraversando l’Atlantico
e il Mediterraneo, avrebbe portato il grande Artù, ferito a morte, fino alle
falde dell’Etna. Qui, in un castello dove nessuno può morire – ed Arturo non
morì – il Re guarì, ritemprato dalla forza arcana ed eterna che emana dalle
viscere del vulcano e che trova una forma visibile nel rosso della sua lava e
in quello vellutato dei suoi vini, capaci di stornare anche la forza di un
ciclope o di far rinascere a vita nuova.
La
Sicilia, terra di miti antichissimi, non avrebbe potuto non influenzare una
delle più audaci intelligenze del XVII secolo. E questi si ripresentano ed
echeggiano, continuamente, nei suoi scritti. A Cervantes, sono debitore per quanto
ha scritto sulla Sicilia e, da un punto di orgoglio personale, per quanto mi ha
insegnato durante tre anni meravigliosi dei miei anni verdi nel campus dell’Università
Complutense. Che la sua Opera
principale, il “Don Chisciotte”,
possa essere stata tramata e iniziata durante un suo soggiorno all’ospedale di
Messina, quindi, non solo non dovrebbe meravigliare, ma dovrebbe riempire d’orgoglio
tutti i siciliani e spronarci a trovare mezzi e modi per saperne di più. Recentemente,
a “Terrazza d’Autore” 2016, si è parlato di “Miguel
de Cervantes e la Sicilia”, sotto la regia di Domenico Ciccarello e con
letture dell’attrice Virginia Alba, “al calar del sole”, in quel di Valderice. La
Sicilia, crocevia di civiltà, fu per lui motivo d’ispirazione, punto di rapporti
importanti e terra di apprezzamento.
Dal
letto su cui giaceva nell’ospedale di Messina, in seguito alla ferita riportata
alla mano sinistra di cui per l’uso, nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre
1571, egli trovò l’ispirazione per il suo capolavoro,
“El ingenioso hidalgo don Quijote de la
Mancha”. Le condizioni sfavorevoli di quei lunghi mesi di degenza, senza
poter poggiare la spalla sinistra, non gli permettevano altro rifugio al di
quello della propria fantasia. E, nell’opera di Cervantes, si coglie la
necessità di fuggire da quelle condizioni, scoprire un sogno, seguire la follia
istintiva che ogni essere umano sperimenta per non soccombere e vivere,
coscientemente, la propria vicenda esistenziale. L’ospedale messinese gli ha
offerto forse, per la prima volta, la possibilità di riflettere e di
vagheggiare un mondo mai esplorato, ma sempre sognato. E tale intenzione si può
osservare nella lettura del “Don
Chisciotte”.
Tre
anni dopo l’esperienza del dolore fisico, nel 1574, la Sicilia offre a
Cervantes la possibilità di un rapporto d’amicizia con il poeta monrealese
Antonio Veneziano, conosciuto a Palermo. Amicizia che si consoliderà tra le
mura squallide di una prigione, ad Algeri, fatto prigioniero dai turchi mentre
tornava in Spagna nel 1578. Anche qui le condizioni sfavorevoli servirono a
cementare il rapporto umano tra due menti che si aprivano verso nuovi mondi, la
loro amicizia intellettuale e stima reciproca. Lo stesso Leonardo Sciascia ne
rimase impresso, dedicando un suo Saggio
“Vita di Antonio Veneziano”, inserito
nel Volume “La corda pazza”, al poeta di Monreale. Molti i versi che Cervantes
dedica all’amico siciliano. Sfortunatamente, la risposta di Antonio Veneziano
fu tiepida, quasi dettata da un certo senso di superiorità.
L’ammirazione,
comunque, di Leonardo Sciascia per lo scrittore spagnolo rimane intatta e
quando quest’ultimo pubblicherà il suo grande romanzo, “Don Quijote”, Sciascia cercherà, e con successo, di penetrare
negli archetipi cervantini per scoprirne la hispanidad del Siglo de Oro. La
Sicilia onorerà Cervantes anche con un rifacimento del “Don Chisciotte” in versi, ad opera del poeta siciliano Giovanni
Meli. E, questo, non è poco. Cervantes da parte sua ammirerà la terra che l’ha
ospitato e nella Novella “El amante liberal”, storia del
trapanese Ricardo, prigioniero dei Turchi, rievocherà la bellezza della sua
donzella Leonisa, del paesaggio trapanese, del suo mare e della sua gente,
esprimendosi in versi sublimi.
Quattrocento
anni dopo la sua scomparsa, Cervantes rimane come uno dei più importanti
scrittori europei e, se alla sua grandezza letteraria ha potuto contribuire
anche la Sicilia, questo dovrebbe essere motivo di orgoglio per noi e di studi
continui sul messaggio e le varie tematiche di questo autore. Perché, allora,
non potenziare dipartimenti universitari presso tutti i nostri Atenei
siciliani, che possano illuminare, maggiormente, momenti culturali simili a
quelli che, probabilmente, hanno investito anche la vita di Cervantes o a
quelli che riguardano lo Shakespeare siciliano? Perché i nostri governanti non
investono di più in cultura, l’unica capace di gettare ponti e rinforzare le
fondamenta che nobilitano il pluralismo delle nostre nazioni, integrano la
ricchezza delle diverse identità culturali e religiose e fondano il cammino
comune verso obiettivi sociali, civili, politici, spirituali e culturali nella
nostra Europa?
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