mercoledì 7 settembre 2016
RECENSIONE
Il vitalismo di Frida nel monologo di Pino Cacucci
di Tiziana Santoro
 Pino Cacucci,
scrittore, giornalista, ma soprattutto attento viaggiatore, durante gli anni
ottanta si lascia attrarre dalla cultura e dalla genuinità del popolo
messicano. La sua sensibilità si rivolge, soprattutto, a quelle donne che,
durante i primi anni del 1920, sono state pioniere di una rivoluzione culturale
destinata a cambiare i costumi dell’epoca. Cacucci, autore di “Viva la vida”,
sceglie la forma del monologo per dare voce a Frida Kahlo. Dapprima, studioso
delle vita e delle opere della fotografa Tina Modotti, Cacucci inizia ad
interessarsi alle vicende della “Colomba del Messico”, approfondendo i suoi
rapporti con la Modotti e Nahui Olin: diverse per scelte e impeto, eppure
espressione della rivoluzione culturale del loro tempo, si conobbero e furono
interpreti del vento rivoluzionario che soffiava dal Messico.
Tra queste – ha
scritto Cacucci – un’artista e una donna emerge, maggiormente, perché animata
da “una forza di volontà superiore”: è Frida. La scintilla tra Cacucci e Frida
era già scattata quando il musicista e amico Andrea Centazzo gli aveva chiesto
di scrivere un copione teatrale per quattro personaggi: Frida, Diego, Cristina
e Trockij. Il progetto non ha avuto seguito, ma ha ispirato il monologo “Viva
la vida”, recitato da Chiara Muti al Teatro di Lerici, già nel 2009. È nella
penna di Cacucci che Frida prende vita e racconta di aver vissuto “sepolta
ancora viva”, tutta avvolta in busti di gesso, dopo l’incidente stradale che
l’ha dilaniata nel corpo e nell’anima. Eppure, è proprio dopo la sciagura che
Frida è esplosa in tutta la sua vitalità: “Ho sempre preso la vita a morsi.
Quel giorno, le ho piantato addosso i denti e anche le unghie”.
Durante la lunga
degenza, l’artista messicana ha iniziato a dipingere se stessa. Benché i
critici abbiano visto in Frida un’ispirazione surrealista, la colomba
dichiarava: “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il
soggetto che conosco meglio”. Per la Kahlo, arte, politica e l’amore per Diego
Rivera altro non erano se non espressione del suo vitalismo, un vitalismo in
grado di irridere alla morte e di riaffermare la forza della vita. “La colomba
e l’elefante” – così, li chiamavano tutti – non potevano essere più diversi e,
al tempo stesso, più simili. Diego, interprete del popolo, “rappresenta
l’universalità del mondo visibile”. Frida, attraverso le sue opere, dà
immediatezza alle esperienze vissute e immaginate. Diego predilige dipingere
affreschi sui murales e rendere l’arte accessibile a tutti; Frida sceglie
l’autoritratto come autobiografia dei propri pensieri, stati d’animo e
intuizioni.
Ad unire “la
colomba e l’ elefante”, ancor più che l’amore e la passione, era la solitudine:
l’adesione alla politica, più che militanza di partito, era per Frida e Diego
un ideale purissimo che non trovava riscontro nella realtà; allo stesso modo,
l’arte non poteva rimanere imbrigliata nei vincoli della censura, per poter
esser considerata tale. Questa solitudine univa i due artisti, Frida ne era
consapevole e lo esprimeva, chiaramente: “tu e io siamo sacrileghi per i
bigotti, osceni per i perbenisti, sovversivi per i capitalisti e servi dei
capitalisti per i comunisti … Siamo soli, Diego. Soli”. I tradimenti di Rivera,
persino quello con la sorella amatissima di Frida e le vendette di quest’ultima,
anche non il carismatico Trockij, non hanno mai infranto il legame tra i due
coniugi. Nelle loro vite, come tra le loro case, era sempre presente un ponte a
cementare due mondi diversi, ma espressione di uno stesso idealismo purissimo.
Frida, più di ogni
altra cosa, “era il Messico”, non il simbolo della sua terra, bensì il sintomo:
sintesi di etnie diverse, Frida rivendica la discendenza da ribelli sconfitti,
mai domati e sempre pronti a difendere la propria dignità. L’artista fingeva di
essere nata nell’anno della rivoluzione messicana, perché si sentiva,
realmente, figlia di quella rivoluzione che faceva tuonare la voce del Messico
e del suo popolo. Tuttavia la rivoluzione di Frida (quella più autentica) è
stata “dipingere” se stessa “attaccata alla vita come una sanguisuga”. Frida
attraverso le sue opere ci ha lasciato i suoi dolori, i suoi sogni, ma
soprattutto se stessa.
Il dolore per il
tradimento di Diego e Cristina trova espressione nel Dipinto “Memoria” e,
ancora, in “Ricordo di una ferita aperta”. Il sentimento della morte trova
riscontro nel sorriso sereno di una giovane suicida nell’Opera “Il suicidio di
Dorothy Hale”. Prima di morire Frida scriveva sul diario “Continuerò a
scriverti con i miei occhi. Sempre”. Questo è il testamento eterno della
Colomba del Messico, quel legame indistruttibile che è sopravvissuto alla sua
morte e che attira i suoi estimatori nell’orbita di quegli occhi neri, profondi
ed “eternamente vivi”.
|