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 giovedì 18 aprile 2019

IMMIGRAZIONE

Io, speriamo che me la cavi

di Marisa Frasca Rustica


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Tempo fa un insegnante di scuola elementare, volle mettere in evidenza le frasi spontanee ed innocenti di piccoli alunni che commentavano le guerre, ed altri avvenimenti naturali sconvolgenti trasmessi dalla TV di Stato. “Io, speriamo che me la cavi”, fu l’emblematica esclamazione di uno di loro, frase che oggi, purtroppo, potrebbe essere adottata da quei poveri sventurati che, per volere sfuggire ai disastri della loro terra, si ammassano su barconi, affrontando la morte che non tarda ad arrivare, dopo aver versato una somma incredibile ma appetibile, per i nuovi mercanti di schiavi e per tutti coloro che ne sono coinvolti “civilmente”: quegli incredibili signori che credono di appartenere al genere di “Homo erectus”. A meno che non pensino nel loro intimo: “Io, speriamo che me la cavi”. In tutto questo fermento di lacrime, sospiri, sacrifici, e di cuori esacerbati di pietà per tanta povera gente che galleggia sopra e sotto il mare, emerge la figura di Daniele Comboni, un veneto morto ormai, ma santificato.

Questo veneto di Limone sul Garda, pensò nell’800, che era cosa buona e giusta, aiutare coll’istruire i popoli africani a cominciare dal Sudan, per “Salvar l’Africa con l’Africa!”. Ma che idea! Tuttavia ebbe molti seguaci. I suoi seguaci Missionari di alto livello culturale psicologico e cristiano iniziarono un lavoro ad avvicinare questi fratelli, che si dibattevano come potevano nell’aridità della loro terra, sfruttati da chi aveva un interesse altamente economico. Ancora oggi i missionari di Comboni vivono nella Brousse africana, in località sperdute, insegnando ai “fratelli” a lavorare il terreno, a costruire case, chiese ed acquedotti, a fondare le scuole, ad insegnare i lavori domestici alle donne che riescono anche a vendere i loro prodotti artigianali. In ospedali d’emergenza curano la lebbra, le malattie infettive, e le donne hanno imparato a coltivare meglio la terra, a cucinare, ad educare a credere in qualcosa di più umano per migliorare comunque il tono di vita neanche pensabile dal nostro cosiddetto mondo civile.

Le suore coraggiose le guidano mentre i fratelli consacrati (che non sono sacerdoti) lavorano con gli uomini, facendo i muratori, i meccanici, gli idraulici, affidandosi principalmente alla loro preparazione lavorativa, sostenuta dalla fede comune a tanti professionisti e volontari che con gioia impiegano il loro tempo in quest’opera di giustizia, gratuitamente. Qualcuno, abituato a fare il proprio interesse, critica aspramente questa “intromissione” prepotente sugli usi e costumi, propri di questa gente e forse approverà che sia giusto che i poveri vecchi ed ammalati vengano trasportati ai margini delle foreste e savane dove le belve attendono il pasto quotidiano!

Peccato che tutto questo avvenga gratuitamente, è molto meglio osservare la compassione, la partecipazione indignata per quello che avviene nel nostro mare, dalla nostra civilissima Europa, accogliente o quasi di questa povera gente (non sempre in buona compagnia) mentre noi che non siamo diplomatici, e tanto meno politici ci chiediamo ingenuamente: È possibile attuare quello che di recente Papa Francesco si augurava: Vedere sorgere le foreste al posto dei deserti. Pensava al Comboni?


 


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