IMMIGRAZIONE
Io, speriamo che me la cavi
di Marisa Frasca Rustica
 Tempo fa un
insegnante di scuola elementare, volle mettere in evidenza le frasi spontanee
ed innocenti di piccoli alunni che commentavano le guerre, ed altri avvenimenti
naturali sconvolgenti trasmessi dalla TV di Stato. “Io, speriamo che me la cavi”, fu l’emblematica esclamazione di uno
di loro, frase che oggi, purtroppo, potrebbe essere adottata da quei poveri
sventurati che, per volere sfuggire ai disastri della loro terra, si ammassano
su barconi, affrontando la morte che non tarda ad arrivare, dopo aver versato
una somma incredibile ma appetibile, per i nuovi mercanti di schiavi e per
tutti coloro che ne sono coinvolti “civilmente”: quegli incredibili signori che
credono di appartenere al genere di “Homo erectus”. A meno che non pensino nel
loro intimo: “Io, speriamo che me la cavi”.
In tutto questo fermento di lacrime, sospiri, sacrifici, e di cuori esacerbati
di pietà per tanta povera gente che galleggia sopra e sotto il mare, emerge la
figura di Daniele Comboni, un veneto morto ormai, ma santificato.
Questo veneto di Limone sul Garda, pensò nell’800, che era cosa
buona e giusta, aiutare coll’istruire i popoli africani a cominciare dal Sudan,
per “Salvar l’Africa con l’Africa!”. Ma
che idea! Tuttavia ebbe molti seguaci. I suoi seguaci Missionari di alto
livello culturale psicologico e cristiano iniziarono un lavoro ad avvicinare
questi fratelli, che si dibattevano come potevano nell’aridità della loro
terra, sfruttati da chi aveva un interesse altamente economico. Ancora oggi i
missionari di Comboni vivono nella Brousse africana, in località sperdute, insegnando
ai “fratelli” a lavorare il terreno, a costruire case, chiese ed acquedotti, a
fondare le scuole, ad insegnare i lavori domestici alle donne che riescono
anche a vendere i loro prodotti artigianali. In ospedali d’emergenza curano la
lebbra, le malattie infettive, e le donne hanno imparato a coltivare meglio la
terra, a cucinare, ad educare a credere in qualcosa di più umano per migliorare
comunque il tono di vita neanche pensabile dal nostro cosiddetto mondo civile.
Le
suore coraggiose le guidano mentre i fratelli consacrati (che non sono
sacerdoti) lavorano con gli uomini, facendo i muratori, i meccanici, gli
idraulici, affidandosi principalmente alla loro preparazione lavorativa, sostenuta
dalla fede comune a tanti professionisti e volontari che con gioia impiegano il
loro tempo in quest’opera di giustizia, gratuitamente. Qualcuno, abituato a
fare il proprio interesse, critica aspramente questa “intromissione” prepotente
sugli usi e costumi, propri di questa gente e forse approverà che sia giusto
che i poveri vecchi ed ammalati vengano trasportati ai margini delle foreste e
savane dove le belve attendono il pasto quotidiano!
Peccato che tutto questo
avvenga gratuitamente, è molto meglio osservare la compassione, la
partecipazione indignata per quello che avviene nel nostro mare, dalla nostra
civilissima Europa, accogliente o quasi di questa povera gente (non sempre in
buona compagnia) mentre noi che non siamo diplomatici, e tanto meno politici ci
chiediamo ingenuamente: È possibile attuare quello che di recente Papa
Francesco si augurava: Vedere sorgere le foreste al posto dei deserti. Pensava
al Comboni?
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