FIRENZE
Una Mostra per definire una nazione
di Tiziana Santoro
 Nelle
sale di Palazzo Strozzi, è stata allestita la Mostra “Nascita di una Nazione
tra Guttuso, Fontana e Schifano”, accessibile al pubblico sino al 22 luglio.
Trattasi di un viaggio attraverso l’arte per ricostruire il controverso periodo
storico che, dagli anni ‘50 e sino alla fine degli anni ‘60, connota la “faticosa”
definizione d’ identità nazionale dell’Italia. Accogliendo gli stati d’animo e
le istanze di militanza politica post-bellica, le dicotomie partitiche e
ideologiche degli anni della ricostruzione, della guerra fredda e del boom
economico, gli artisti interpretano le trasformazioni sociali del loro tempo e
le restituiscono attraverso espressioni artistiche animate da un intenso sperimentalismo
che muove da linguaggi, materie e forme innovative. A connotare la nuova idea
di Nazione, è un itinerario artistico che attraversa l’arte informale, la Pop
Art, la Pittura monocronima, l’Arte povera e l’Arte concettuale.
Il
visitatore che accede alla prima Sala di Palazzo Strozzi è immediatamente
catturato dalla “Battaglia di Ponte dell’Ammiraglia” di Renato Guttuso, esposta
per la prima volta nel 1952 alla Biennale di Venezia con l’epiteto di “manifesto
del nuovo realismo storico”. L’opera raffigura Garibaldi e i Mille in lotta
contro le truppe borboniche sul Ponte dell’Ammiraglio a Palermo. L’interpretazione
del dipinto è di matrice autobiografica, poiché il nonno paterno di Guttuso
partecipò all’impresa, ma allo stesso tempo di matrice ideologica, in quanto
allude alla resistenza e alla battaglia politica della sinistra. Non è un caso,
dunque, che alla destra di Garibaldi, nei panni del colonnello Nullo, sia
possibile distinguere l’eroe della resistenza Pajetta. Persino i volti dei
garibaldini, sono quelli contemporanei di chi pratica una resistenza che si
perpetua ininterrottamente dal Risorgimento alla seconda guerra mondiale e
anche oltre.Sullo
sfondo della creazione di un’identità nazionale che si rinnova, pesa il
giudizio dell’opinione pubblica, dei rotocalchi e di una classe politica che
non coglie il fermento artistico del suo tempo e apostrofa le opere esposte
alla Biennale di Venezia come “astruse, tele imbrattate, ferraglie rugginose e
controverse in cui legni bruciacchiati vengono contrabbandati come arte”.
Nonostante i severi giudizi, l’arte informale si affermava incentrando la
ricerca sul gesto, sul segno e sulla sperimentazione della materia e dello
spazialismo.
Nei
primi anni ‘50, Burri utilizzava sacchi di juta laceri per esprimere le ferite
post-belliche inflitte agli uomini; Scarpitta immergeva bende di tela in
sostanze plastiche per rendere fisica l’energia della materia. Sono gli anni in
cui Fontana teorizzava la sua “poetica spaziale” e, a proposito dei suoi tagli
su tela, puntualizzava: “I miei tagli
sono, soprattutto, un’espressione filosofica, un atto di fede nell’infinito, un’affermazione
di spiritualità (….) provo all’improvviso una grande distensione dello spirito,
mi sento un uomo liberato dalla schiavitù, dalla materia, un uomo che
appartiene alla vastità del presente e del futuro”. Piero Manzoni, invece,
interpretava la società consumistica dell’Italia del “miracolo economico” e
rifletteva sul ruolo dell’artista. Nella società dei consumi – ironizzava
Manzoni – tutto poteva diventare arte, pertanto, trasformava uova, pane e merda
in capolavori artistici senza tempo. Anche Melotti realizzava la sua
rivoluzione e approdava “all’anti-scultura” attraverso l’impiego di materiali
duttili e nelle sue opere intrecciava scultura, musica e poesia.
Gnoli
teorizzava lo straniamento e osservava gli oggetti come fossero visti
attraverso una lente deformante. Il disagio percettivo di chi osserva l’opera
denota una corrispondenza con le tecniche cinematografiche di Antonioni nel
film Blow up e testimonia l’influenza delle nuove tecniche cinematografiche e
fotografiche nelle arti figurative. Gli anni ‘60 sono stati quelli di
Cinecittà, dell’industria cinematografica e della “Dolce Vita”, gli stessi da
cui scaturiranno la spersonalizzazione e la società di massa rappresentata da
Mambor con “Gli uomini grigi” privi di volto e individualità. Tacchi
rifletteva, invece, sull’identità femminile e sulla sua sensualità, traendo
spunto da una sequenza del film Agente 007 “Missione Goldfinger” e utilizzava
smalto su tela imbottita per raffigurare una donna morente ricoperta d’oro:
omaggio alla Roma barocca e kitsch.
È,
visivamente, di grande impatto la sala dedicata al ‘68, scenario di cortei e
scontri di piazza. Sulle tele di Schifano compaiono i simboli delle ideologie
partitiche, gli Angeli li utilizzava per provocare, Paolini con l’opera “Averroè”
si spingeva ben oltre, con la premonizione del futuro mondo globale. Torino, la
Città della FIAT, dava il suo contributo e s’imponevano all’attenzione pubblica
questioni legate al futuro dei giovani e al problema del valore della cultura
nella società. Un tema attualissimo era quello dell’energia e Kounelles con la “Margherita
di fuoco” esprimeva la metafora dello scontro tra natura e tecnica. In quegli
anni, l’arte diventava sempre più performance e Calzolari raffigurava un treno
elettrico con in cima una bandiera rossa, destinato a muoversi sempre sullo
stesso binario, mentre girava intorno a una superficie scabra.
La
Nazione provava a guardare se stessa e si dibatteva tra passato e futuro, come
Penone che si fotografava con lenti specchiate, che gli impedivano la visione e
restituiva allo spettatore le immagini riflesse di quel mondo a cui egli non
riusciva ad accedere. Emblematiche e attualissime le due rappresentazioni in
apertura e chiusura della mostra. Una sintesi puntualissima delle
contraddizioni della nostra nazione, ancora tutte riconducibili alle radici di
un risorgimento che di fatto non ha mai colmato il divario esistente tra Nord e
Sud del Paese. A ribadirlo, hanno contribuito gli esiti elettorali recenti;
avviene, così, che ci ritroviamo ad interrogarci, ancora oggi, su una Nazione
che, come il treno di Calzolari, “gira all’infinito sullo stesso binario” senza
“arrivare mai” da nessuna parte.
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