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 domenica 18 marzo 2018

FIRENZE

Una Mostra per definire una nazione

di Tiziana Santoro


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Nelle sale di Palazzo Strozzi, è stata allestita la Mostra “Nascita di una Nazione tra Guttuso, Fontana e Schifano”, accessibile al pubblico sino al 22 luglio. Trattasi di un viaggio attraverso l’arte per ricostruire il controverso periodo storico che, dagli anni ‘50 e sino alla fine degli anni ‘60, connota la “faticosa” definizione d’ identità nazionale dell’Italia. Accogliendo gli stati d’animo e le istanze di militanza politica post-bellica, le dicotomie partitiche e ideologiche degli anni della ricostruzione, della guerra fredda e del boom economico, gli artisti interpretano le trasformazioni sociali del loro tempo e le restituiscono attraverso espressioni artistiche animate da un intenso sperimentalismo che muove da linguaggi, materie e forme innovative. A connotare la nuova idea di Nazione, è un itinerario artistico che attraversa l’arte informale, la Pop Art, la Pittura monocronima, l’Arte povera e l’Arte concettuale.

Il visitatore che accede alla prima Sala di Palazzo Strozzi è immediatamente catturato dalla “Battaglia di Ponte dell’Ammiraglia” di Renato Guttuso, esposta per la prima volta nel 1952 alla Biennale di Venezia con l’epiteto di “manifesto del nuovo realismo storico”. L’opera raffigura Garibaldi e i Mille in lotta contro le truppe borboniche sul Ponte dell’Ammiraglio a Palermo. L’interpretazione del dipinto è di matrice autobiografica, poiché il nonno paterno di Guttuso partecipò all’impresa, ma allo stesso tempo di matrice ideologica, in quanto allude alla resistenza e alla battaglia politica della sinistra. Non è un caso, dunque, che alla destra di Garibaldi, nei panni del colonnello Nullo, sia possibile distinguere l’eroe della resistenza Pajetta. Persino i volti dei garibaldini, sono quelli contemporanei di chi pratica una resistenza che si perpetua ininterrottamente dal Risorgimento alla seconda guerra mondiale e anche oltre.Sullo sfondo della creazione di un’identità nazionale che si rinnova, pesa il giudizio dell’opinione pubblica, dei rotocalchi e di una classe politica che non coglie il fermento artistico del suo tempo e apostrofa le opere esposte alla Biennale di Venezia come “astruse, tele imbrattate, ferraglie rugginose e controverse in cui legni bruciacchiati vengono contrabbandati come arte”. Nonostante i severi giudizi, l’arte informale si affermava incentrando la ricerca sul gesto, sul segno e sulla sperimentazione della materia e dello spazialismo.

Nei primi anni ‘50, Burri utilizzava sacchi di juta laceri per esprimere le ferite post-belliche inflitte agli uomini; Scarpitta immergeva bende di tela in sostanze plastiche per rendere fisica l’energia della materia. Sono gli anni in cui Fontana teorizzava la sua “poetica spaziale” e, a proposito dei suoi tagli su tela, puntualizzava: “I miei tagli sono, soprattutto, un’espressione filosofica, un atto di fede nell’infinito, un’affermazione di spiritualità (….) provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù, dalla materia, un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro”. Piero Manzoni, invece, interpretava la società consumistica dell’Italia del “miracolo economico” e rifletteva sul ruolo dell’artista. Nella società dei consumi – ironizzava Manzoni – tutto poteva diventare arte, pertanto, trasformava uova, pane e merda in capolavori artistici senza tempo. Anche Melotti realizzava la sua rivoluzione e approdava “all’anti-scultura” attraverso l’impiego di materiali duttili e nelle sue opere intrecciava scultura, musica e poesia.

Gnoli teorizzava lo straniamento e osservava gli oggetti come fossero visti attraverso una lente deformante. Il disagio percettivo di chi osserva l’opera denota una corrispondenza con le tecniche cinematografiche di Antonioni nel film Blow up e testimonia l’influenza delle nuove tecniche cinematografiche e fotografiche nelle arti figurative. Gli anni ‘60 sono stati quelli di Cinecittà, dell’industria cinematografica e della “Dolce Vita”, gli stessi da cui scaturiranno la spersonalizzazione e la società di massa rappresentata da Mambor con “Gli uomini grigi” privi di volto e individualità. Tacchi rifletteva, invece, sull’identità femminile e sulla sua sensualità, traendo spunto da una sequenza del film Agente 007 “Missione Goldfinger” e utilizzava smalto su tela imbottita per raffigurare una donna morente ricoperta d’oro: omaggio alla Roma barocca e kitsch.

È, visivamente, di grande impatto la sala dedicata al ‘68, scenario di cortei e scontri di piazza. Sulle tele di Schifano compaiono i simboli delle ideologie partitiche, gli Angeli li utilizzava per provocare, Paolini con l’opera “Averroè” si spingeva ben oltre, con la premonizione del futuro mondo globale. Torino, la Città della FIAT, dava il suo contributo e s’imponevano all’attenzione pubblica questioni legate al futuro dei giovani e al problema del valore della cultura nella società. Un tema attualissimo era quello dell’energia e Kounelles con la “Margherita di fuoco” esprimeva la metafora dello scontro tra natura e tecnica. In quegli anni, l’arte diventava sempre più performance e Calzolari raffigurava un treno elettrico con in cima una bandiera rossa, destinato a muoversi sempre sullo stesso binario, mentre girava intorno a una superficie scabra.

La Nazione provava a guardare se stessa e si dibatteva tra passato e futuro, come Penone che si fotografava con lenti specchiate, che gli impedivano la visione e restituiva allo spettatore le immagini riflesse di quel mondo a cui egli non riusciva ad accedere. Emblematiche e attualissime le due rappresentazioni in apertura e chiusura della mostra. Una sintesi puntualissima delle contraddizioni della nostra nazione, ancora tutte riconducibili alle radici di un risorgimento che di fatto non ha mai colmato il divario esistente tra Nord e Sud del Paese. A ribadirlo, hanno contribuito gli esiti elettorali recenti; avviene, così, che ci ritroviamo ad interrogarci, ancora oggi, su una Nazione che, come il treno di Calzolari, “gira all’infinito sullo stesso binario” senza “arrivare mai” da nessuna parte.


 


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